A volte, abbiamo soltanto bisogno di un aiuto concreto, di non sentirci soli, di poter far parte di qualcosa, di contare per qualcuno, di essere ricordati. E, forse, Juliet Escoria, con il suo La squilibrata, vuole trasmettere proprio questo messaggio. Perché la solitudine scava dentro un baratro profondo che, se non colmato, non concede una via d’uscita. Non c’è modo di risalire, si continua soltanto a cadere giù.
Ed è questo che Juliet, autrice e protagonista, continua a fare, perché non si sente normale, non si sente abbastanza intelligente, non si sente abbastanza per il mondo reale. La via di fuga più semplice e accessibile, per lei, è quella della droga, è l’alcool. Andare oltre la realtà, rintanarsi in un universo dove non c’è bisogno di essere compresi, dove tutto diventa semplice e normale, dove non si devono mantenere alte le aspettative. La vita vera, però, torna a farsi sentire. Torna a bussare alla porta del cuore e della mente. Scombussola, spiazza, crea difficoltà e ostacoli che sembrano insormontabili. Forse farla finita è la scelta migliore, così da non dare più delusioni ai propri cari, soprattutto a se stessi. Perché il giudice più severo, anche in questo caso, è Juliet, lei che si odia così tanto da desiderare la morte, lei che nei momenti di sballo si sente più viva che mai.
Cominciai a fare spesso scenate. C’è un modo per avere un attacco di ansia che è in parte reale ma anche in parte finto. Se ti senti in ansia, non devi fare altro che respirare poco profondamente e pensare a tutte le cose che odi di te e della tua vita. Come in questo modo:
Sono una merda.
Sono una squilibrata.
Matta da legare.
Un cazzo di casino.
Un fallimento.
Una merda.
Una merda.
Dovrei morire.
E presto ti ritrovavano a iperventilare. E presto ti davano un Ativan. E se lo facevi per bene, te ne davano due. Come per magia.
Eppure, non tutto va a rotoli, perché l’amore e l’amicizia sono sentimenti che nutrono l’anima e fanno crescere in Juliet boccioli bellissimi. Ricevere attenzioni e affetto è qualcosa di più curativo di qualsiasi medicina, ma il passato è difficile da dimenticare, soprattutto quando si vivono esperienze come la sua. Il tempo le concede, tuttavia, di accettare quel passato che ancora la insegue e, anche se vorrebbe chiuderlo in un cassetto e non riaprirlo più, sa che invece sarà sempre lì. La squilibrata non ha un lieto fine, semplicemente mostra la realtà per quella che è, senza mezzi termini, senza scappatoie. Il male che Juliet ha inflitto a se stessa non ha fatto altro che diventare un simbolo, un qualcosa da ricordare, da evitare, da non ripetersi.
L’incapacità di vedere nella vita qualcosa di positivo è una costante che si affievolisce soltanto con il tempo. Dedicarsi anima e corpo a uno sport, prendersi cura di un cucciolo di agnello, far sì che una pianta possa crescere rigogliosa, viaggiare e affrontare la solitudine imparando a guardarsi dentro. Piccoli passi, piccole conquiste che fanno cambiare il tono della voce narrante che, inizialmente, può sembrare distaccata, fredda, cruda, invece, con il passare del tempo, con il mutare e maturare di Juliet, ci si accorge che è la sua voce a diventare diversa. La consapevolezza di sé inizia a farsi largo, la voce si fa più decisa, ma allo stesso tempo più congeniale a una ragazza della sua età.
La squilibrata, pubblicato da Pidgin Edizioni con traduzione di Stefano Pirone, è un racconto estremamente intimo della malattia mentale e delle dipendenze. I pensieri e le azioni della scrittrice protagonista mostrano quanto un disturbo possa spingere ad azioni estreme una persona, anche quando questa cerca con tutta se stessa di combattere e non arrendersi. Perché la malattia mentale è un male che, se non affrontato nel modo giusto, può schiacciare e diventare un demone con il quale ci si deve scontrare, sempre. Del resto, le psicopatologie sono ancora troppo sottovalutate o ignorate, considerate come qualcosa di passeggero, legate spesso all’età. Un male invisibile che si insinua, purtroppo, spesso nei giovani.
Juliet Escoria, in un’intervista, ha dichiarato: «Mi sentivo come un porcellino d’India, e mi sentivo come se le persone che conoscevo avessero la mia età, che attraversavano cose simili, fossero anche cavie. Ho tentato il suicidio più volte, probabilmente a causa degli antidepressivi. […] Ho avuto molta rabbia nei confronti dell’industria farmaceutica e, naturalmente, degli psichiatri. Il denaro è un fattore importante, ma sento che molti dei medici che ho visto avevano buone intenzioni. Forse non avevano buoni metodi, ma le intenzioni c’erano. Penso che sia davvero interessante dove siamo arrivati da quando mi è stato originariamente diagnosticato in termini di ciò che sappiamo ora che non lo sapevamo molto tempo fa. E poi quanto poco sanno ancora. Penso che gli anni Novanta siano stati un periodo strano, perché avevi farmaci relativamente nuovi, e mi sento come se i medici prescrivessero cose eccessive; di questo sembrava importante parlare, l’eccessivo zelo nel prescrivere le cose».
Insomma, senza girarci intorno, Juliet Escoria e La squilibrata non offrono la speranza che attraverso la conoscenza il muro dell’indifferenza, sempre più alto quando si tratta di salute mentale, possa essere abbattuto. Eppure noi, di questo libro, vogliamo consigliarvi comunque la lettura. Perché è parlandone che si spaventa il mostro.
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