Era il 23 novembre del 1980, quarant’anni fa. Il terremoto scosse la terra alle 19:34, un minuto e venti secondi di terrore e smarrimento. Interi paesi crollarono al suolo, videro il loro posto sulle carte geografiche cancellarsi. Tanti altri si riscoprirono irreparabilmente sfregiati. Oggi, nel 2020, la pandemia mina il diritto alla memoria di quelle città, di quella gente segnata.
Il sisma che sconvolse l’Irpinia è il più tragico degli eventi moderni: 2914 persone persero la vita tra le macerie, 8848 rimasero ferite, 280mila furono costrette ad abbandonare le proprie abitazioni. La maggior parte delle iniziative pubbliche e private che avrebbero avuto luogo durante il weekend appena trascorso, e nella giornata odierna, non verrà celebrata, il racconto sarà costretto dal COVID a una pidocchiosa revisione che minerà la forza delle ancora necessarie denunce.
«Fate presto», gridò il Presidente Sandro Pertini, riscontrando i ritardi dei soccorsi una volta giunto sul posto e, al tempo stesso, la fragilità del sistema Stato di fronte alle criticità, l’incapacità di offrire risposte o anche semplici parole di conforto. I lamenti di chi sperò, per interi giorni, di essere tratto in salvo furono una colonna sonora sinistra in cui si svolsero le operazioni di recupero. Dal terremoto in Friuli erano trascorsi soltanto quattro anni, e i successivi di Assisi, de L’Aquila, dell’Emilia, del Centro Italia, purtroppo, non hanno raccontato una storia diversa.
Il ritardo, in Italia, sembra un difetto congenito, un male necessario, proprio dell’impronta latina che scorre nel sangue di chi nasce sotto la bandiera di Roma. Fanno tardi i soccorsi, soffrono di eccessiva lentezza i processi di ricostruzione, ancor più pigre si muovono le indagini per gli accertamenti delle responsabilità. Tra l’Irpinia e la Basilicata, centinaia di migliaia di persone attesero settimane, mesi, una ricollocazione tra tende e container, per poi trovare nei prefabbricati una casa che le avrebbe accolte per anni. Nel frattempo, gli amministratori locali che avrebbero dovuto salvaguardare i diritti della propria gente speculavano sui fondi messi a disposizione dallo Stato per la ricostruzione, oltre 50 miliardi di lire drasticamente ridimensionati a causa dello sciacallaggio della politica e le incursioni della malavita.
Quello dell’Irpinia fu, a tal proposito, un terremoto anche sociale. Laddove la macchina dei soccorsi organizzava un lavoro mai intrapreso sino a quel momento – tant’è che dalle azioni coordinate da Giuseppe Zamberletti nacque l’impianto della Protezione Civile per come oggi la conosciamo –, un incredibile coordinamento di volontari fece sì che intere comunità potessero tornare a vedere la luce. Tuttavia, non scoraggiò la formazione di alcuni avamposti di degrado e abbandono presso i quartieri istituiti per rispondere all’emergenza.
Intere aree della città di Napoli e alcune province più a rischio si trovarono a fare i conti con il sorgere di rioni istituiti in via temporanea che si trasformarono, man mano, in veri e propri quartieri dove la fame trovava posto al tavolo della malavita. A seguito del sisma di quarant’anni fa che coinvolse quasi 700 paesi tra la Campania e la Basilicata, si vennero a creare alcune aree residenziali ancora oggi note per vicende legate alla proliferazione delle realtà criminali. Scampia, Ponticelli, il Parco Verde di Cavano, il quartiere Monterusciello a Pozzuoli, hanno urlato per anni il proprio disagio nel silenzio complice delle istituzioni che volgevano lo sguardo altrove.
Con i suoi scossoni e il disequilibrio a cui costringe i palazzi e le chiese, il terremoto offre l’immagine dell’Italia che non impara, che interroga le cause delle proprie lacrime sempre e soltanto dopo, e si ritrova spesso a fare i conti con speculazione, collusione, con la mafia. È l’Italia che non chiede conto, che ai responsabili offre ancora poltrone, vittima di un istinto alla rassegnazione a cui non riesce a sottrarsi neppure di fronte al dolore.
Per tutti questi motivi, il diritto alla memoria del terremoto del 23 novembre del 1980 in Irpinia va difeso e rivendicato. Non saranno certo le fiaccolate a mancare, non le teatrali passerelle di chi oggi rappresenta lo ieri che se n’è lavato le mani, non le trasmissioni che rimanderanno soltanto le immagini della polvere e delle macerie e di tutto il resto, dalle indagini ai quartieri dimenticati, farà finta di dimenticare. Diritto alla memoria non deve più voler dire diritto all’ipocrisia, al ricordo senza vista sul futuro.
Oggi, quarant’anni dopo, la ricostruzione è ancora lontana.