Oggi, come il 20 novembre di ogni anno, festeggiamo la Giornata Internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, in celebrazione della data nella quale l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel 1959, adottò la Dichiarazione dei diritti del fanciullo e, dopo tre decenni, nel 1989, la Convenzione omonima, che riconobbe i bambini come soggetti portatori di diritti civili, socio-politici, culturali ed economici. In Italia, è stata ratificata il 27 maggio del 1991, con la legge n. 176. È sul rispetto di questi documenti che si fonda la tutela e la promozione dei diritti degli esseri umani in età minore per tenerli al riparo dai conflitti, dalle discriminazioni e dalle disuguaglianze che avvengono nella vita quotidiana.
Nelle tante giornate di tensione sociale e politica che hanno attraversato questo anno terribile dominato dalla crisi pandemica, ci sono state polemiche in merito alla condizione degli anziani e dei giovani. Non è un paese per vecchi, si leggeva sui giornali – citando l’omonimo romanzo dello scrittore americano Cormac McCarthy, ma anche la più famosa trasposizione cinematografica realizzata dai fratelli Coen – a commento delle notizie sui tanti contagi avvenuti nelle RSA (residenze sanitarie assistenziali) o delle considerazioni superficiali, per non dire ciniche, sul fatto che la percentuale più alta dei decessi, in fondo, riguarda soprattutto i più anziani, sofferenti di diverse patologie e alla fine della loro esistenza. Non è un paese per giovani, rispondevano altri che guardano l’aggravarsi della situazione dei tanti ragazzi che non riescono, appena diplomati o laureati, a trovare un lavoro e, al di là degli studi fatti e dei loro propositi professionali, si arrangiano con impieghi saltuari e malpagati, che in questo periodo di crisi non riescono neanche più a trovare.
Tuttavia, leggendo Con gli occhi delle bambine, il Rapporto di Save The Children – la grande organizzazione internazionale indipendente che lavora dal 1919 per migliorare la vita dei più piccoli – intorno al nuovo Atlante dell’infanzia a rischio, viene da domandarsi se quello in cui viviamo – ma il discorso vale anche per altre aree del pianeta Terra – sia un paese per fanciulli. In sintesi, gli indicatori sociali confermano che in Italia la povertà aumenta e tale deficit storico riduce le opportunità educative, soprattutto per quella fascia societaria – oltre un milione di unità! – dove vivono i bambini in degenza assoluta. In termini più generali, nella nostra nazione cala il numero degli infanti e cresce la povertà educativa, anche come esito della crisi da COVID-19. I dati più recenti mostrano un calo dei nuovi nati, confermando lo smottamento demografico in atto negli ultimi dieci anni, con la perdita di oltre 380mila minori, il 16% del totale della popolazione.
Quest’ultima informazione statistica ci racconta la perdita di apprendimenti e competenze, nonché l’incremento della dispersione scolastica e l’aumento del numero di adolescenti che resta al di fuori dei percorsi di studio, di formazione e di lavoro. La povertà educativa, in altri termini, ci conferma l’acuirsi di un disagio sociale presente prima dell’emergenza sanitaria in atto, rappresentato dal fatto che 1 studente al secondo anno delle superiori su 4 (24%) non raggiunge le competenze minime in matematica e in italiano, il 13.5% abbandona la scuola prima del tempo e più di 1 su 5 (22.2%) va a infoltire la fascia sociale denominata NEET, acronimo in lingua inglese che segnala i ragazzi Neither in Employment or in Education or Training, vale a dire quei ragazzi che non studiano, non lavorano e non sono impegnati nella formazione professionale.
Questo drammatico quadro della situazione demografica e formativa lascia intravedere lo scenario che esiste al di fuori dell’ambito scolastico: la crescita culturale, emozionale, creativa che è necessaria ai bambini e agli adolescenti per sviluppare la propria personalità e favorire l’inserimento sociale è ridotta nella quantità delle opportunità esistenziali e soprattutto nella qualità dei suoi contenuti. Nel biennio 2018-2019, il 48% dei minori tra i 6 e i 17 anni non ha letto nemmeno un libro all’anno e 2 ragazzi su 3 non sono andati mai a teatro o a visitare un museo. Inoltre, più di un bambino o adolescente su 5 (22.4%) tra i 3 e i 17 anni non ha praticato alcuna attività sportiva. Per restare alla rappresentazione colorata della crisi, l’Atlante ci indica le zone rosse della povertà minorile ed educativa, che si sovrappongono, come è ovvio, a quelle dell’emergenza sanitaria. Il report sottolinea, infine, che gli effetti negativi della pandemia affondano le radici nel divario di genere e lo alimentano, pesando più sulle bambine che sui loro coetanei maschi.
Per far crescere un bambino, ci vuole un intero villaggio, recita un antico proverbio africano, proveniente da quell’area del mondo dove pare sia iniziata l’avventura della specie Homo Sapiens sul pianeta. Nelle vicende della storia contemporanea, caratterizzate dal progresso tecnologico e, nonostante le crisi ambientale e sanitaria, dal benessere consumistico, invece, qual è la condizione dei bambini e degli adolescenti e, in ultima analisi, quali sono le possibilità del futuro di tutti gli esseri umani?
Dal punto di vista culturale, vale a dire dei fini e della qualità della vita sociale, stiamo assistendo a una fase di regresso morale che lascia perplessi sul futuro delle relazioni umane e, soprattutto, della condizione minorile. E la qualità civile e le stesse possibilità della persistenza delle comunità umane sul nostro pianeta si misurano dalle modalità con le quali ci si prende cura dei bambini, i cittadini del futuro.