Anche quest’anno è arrivato il Festival di Sanremo e, come di consueto, oltre che dalle attese e dalle curiosità, è stato preceduto e accompagnato da polemiche, perché, si sa, per citare Pippo Baudo, Sanremo è Sanremo, e che piaccia o meno, alla fine, ne parlano tutti, sia pure per screditarlo. Tra le accuse a Carlo Conti per il cachet troppo alto e il delirio di alcuni integralisti per la presenza di Tiziano Ferro e Ricky Martin, in realtà, la critica più pertinente che da qualche tempo si può muovere alla più famosa gara canora d’Italia è quella di aver sacrificato l’elemento della qualità musicale sull’altare della spendibilità commerciale e dell’ascolto televisivo. Ormai, infatti, il Festival è più un evento mediatico e di costume che un contenitore musicale e una vetrina per la proposta di nuovi brani e nuove voci.
Giunta alla sessantasettesima edizione, le origini della rassegna sono molto più antiche e persino più nobili di quanto si possa pensare. Le sue radici, infatti, sono rintracciabili nella storia della canzone napoletana. Per questo motivo, noi di Mar dei Sargassi, abbiamo incontrato un esperto del settore, Carmine Monaco – baritono napoletano, ambasciatore del “bel canto” e della tradizione musicale partenopea dalla Corea del Sud all’America Latina, passando per l’Est Europa – per rivolgergli alcune domande.
È vero che il Festival di Sanremo ha origini napoletane?
«In un certo modo sì. A quanto pare, infatti, nel 1932, per iniziativa di Ernesto Murolo, autore di grandi canzoni napoletane nonché padre di Roberto Murolo, si pensò di portare proprio al Casinò municipale di Sanremo – prima sede di quello che sarà a partire dal 1951 la manifestazione che conosciamo – il Festival della canzone partenopea. Calcarono il palco i più rappresentativi artisti della tradizione musicale napoletana, quali Nicola Maldacea, Ferdinando Rubino e il grande Salvatore De Muto, l’ultimo Pulcinella erede di Petito. La popolarità della canzone napoletana in quegli anni era massima e nettamente superiore a quella italiana in generale. La sua diffusione a livello planetario era favorita dai dischi di uno dei più celebri tenori di tutti i tempi, Enrico Caruso, e da migliaia di emigranti che continuavano a portare avanti la tradizione anche al di là dell’oceano. Un’altra curiosità è che anche le canzoni in lingua italiana erano composte quasi esclusivamente da autori napoletani, ed esempi in tal senso, tra gli altri, sono La leggenda del Piave e Profumi e balocchi di E.A.Mario, Signorinella di Bovio e Valente, Come le rose di Lama e Genise».
Questo Festival della canzone partenopea era una forma di competizione canora come l’attuale Sanremo?
«No, la manifestazione non era una competizione, sebbene, devo aggiungere, fosse il frutto di quella che è stata probabilmente la più grande forma di gara musicale e canora mai esistita, la Piedigrotta. Tale concorso, nato a corredo della festa religiosa della Madonna di Piedigrotta, era molto articolato, prevedendo le esibizioni dei diversi cantanti su carri allegorici. Si trattava, dunque, di una sorta di carnevale-baccanale, dove venivano sollecitati i sensi della vista, dell’udito e anche del gusto, data la presenza di tipiche pietanze culinarie. Parliamo, quindi, di una grandissima occasione, la quale pose le sue radici già dalla metà dell’Ottocento, ancora in periodo borbonico. Al termine della gara si eleggeva la cosiddetta canzone nova, che era quella più votata sia dal pubblico che dalle giurie, ma spesso, come capita per il Festival di Sanremo, non sempre a vincere era il brano destinato poi ad avere maggiore successo. Il declino della manifestazione – che vedeva scendere in piazza tanto il popolo minuto quanto l’aristocrazia della città – si ebbe con il venir meno dei grandi autori e compositori, oltre che delle tradizionali feste cittadine sempre più sminuite. Il tutto confluì, per un periodo, in un Festival di Napoli, che pur avendo un certo valore artistico, non proseguì nel tempo. Oggi si potrebbe pensare a una riproposizione della Festa di Piedigrotta, storicizzandola, un po’ come avviene per il Carnevale di Venezia».
Per quale motivo, in quegli anni, Napoli era la patria della canzone?
«Con l’Unità d’Italia del 1861, forzatamente, la centralità della produzione operistica italiana passò da Napoli al nord del Paese, dunque, quella che era stata la grande scuola dell’Opera del Settecento e Ottocento napoletano, con autori come Bellini, Rossini e Mercadante, venne relegata in secondo ordine rispetto alla produzione successiva, quasi interamente affidata ad autori del Settentrione, come Verdi, Cherubini, ecc. Ciononostante, come al loro solito, i napoletani seppero trovare una via per esprimere il proprio talento e la propria genialità. Alla fine dell’Ottocento, fino quasi alla metà del Novecento, infatti, ci furono decine e decine di musicisti e parolieri che si dedicarono non più alla composizione lirica ma all’arte della canzone. Del resto, non si può negare che tantissime canzoni partenopee siano per ispirazione e complessità, in realtà, delle vere e proprie arie d’opera».
Secondo Lei, si è persa questa grande fucina musicale a Napoli?
«La tradizione della canzone classica napoletana è arrivata fino agli anni Sessanta-Settanta del Novecento. Gli ultimi esempi di questo tipo di maniera compositiva si riscontrano, infatti, in brani come Carmela di Sergio Bruni, Marruzzella di Carosone e Resta cu’mme di Modugno. Ma mentre tutto ciò spariva, anche per il naturale cambio dei gusti degli ascoltatori, nasceva quella che è stata l’evoluzione moderna della produzione musicale partenopea. In tal senso, basti pensare a Pino Daniele, Edoardo Bennato, Enzo Avitabile e altri, i quali hanno saputo cogliere il senso di questa ricchezza e unirla alle nuove tendenze. Parallelamente, purtroppo, si è sviluppata anche una forma di riadattamento dell’antico melodismo tradizionale, che ha fatto nascere quelli che oggi si definiscono neomelodici, i quali, credendo di portare avanti il discorso, hanno in realtà dato vita a un’aberrante imitazione, peraltro totalmente priva di ispirazione tanto poetica quanto musicale».
Prima di salutarci, il baritono ci ha ricordato che quando si parla di Napoli come di un punto di partenza di tutta quella che è la storia della musica italiana non si sbaglia, soprattutto considerando che, ancora oggi, fra le canzoni più ascoltate in tutto il mondo ci sono brani come ‘O Sole mio, Funiculì funiculà e ‘O surdato ‘nnammurato. Probabilmente, anche le nuove generazioni ascoltando questi pezzi provano emozione e piacere e ciò significa che la vera essenza di quell’ispirazione è riuscita a superare indenne il passare del tempo e il mutare dei gusti, persino in un’epoca di globalizzazione che tende a isolare e minimizzare tutto quanto è legato al locale. La grande e vera canzone napoletana, quindi, anche in questo periodo di generale appiattimento commerciale che si può riscontrare di anno in anno nelle edizioni di Sanremo, riesce a riecheggiare ovunque per il suo indiscutibile valore.