Le porte del supermercato si aprono alla clientela come ogni mattina. La filodiffusione suona la solita musica, gli scaffali attendono gli avventori, perfettamente ordinati. Ogni impiegato è lì al proprio posto, pronto a seguire il copione, a rispondere – quasi meccanicamente – agli stimoli di una nuova giornata feriale. È una diapositiva cruda e asciutta del capitalismo connesso alle dinamiche del mondo lavorativo Manodopera, romanzo di Diamela Eltit, pubblicato in Italia da Polidoro editore, una riflessione che sviscera gli aspetti più subdoli del potere.
Manodopera si dipana in due parti, due capitoli ben distinti tra loro per stile e contenuto che si muovono, però, spinti dalla stessa necessità di condanna. Protagonista del primo racconto è un dipendente ripreso nello svolgersi delle proprie mansioni quotidiane, un operaio completamente alienato, ossessionato dalla routine, perseguitato dai bambini che mettono disordine tra gli scaffali e i “vecchi del supermercato” che vengono ad ammazzare il tempo che gli resta, da cui tutti scappano. Il personaggio muove i suoi gesti tra i clienti migliori e la merce, come telecomandato. L’unica traccia che ne identifica l’umanità è la targhetta che porta in petto. Non ha nome né volto, è isolato, depresso, schiavo del sistema quanto, ormai, di se stesso.
L’immagine di copertina del libro – un individuo con una telecamera che sbuca dalla camicia rimpiazzandone la testa – è la sintesi perfetta di ciò che attende il lettore, un obiettivo che inquadra prodotti e persone alla stessa maniera, una sorta di Truman Show che ripete le sue consuetudini in modo ossessivo, in uno spazio dove il tempo è relativo e l’uomo è un corpo vuoto, senza carne né nervi.
La seconda parte di Manodopera, invece, assume i canoni più comuni del racconto, la scena muta da soggettiva a collettiva, si apre a personaggi finalmente identificabili con il proprio nome e il ruolo che svolgono all’interno del supermercato. Sette individui – tra uomini e donne – colleghi e coabitanti, dal momento che condividono non solo l’ambiente lavorativo ma anche quello domestico. Non cambiano, però, le dinamiche di alienazione, anzi, prendono forma, con le situazioni proprie del market che, inevitabilmente, si ripercuotono sull’equilibrio della casa che hanno in comune, in cui le logiche che regolano lo scandire di giorni identici sono la produzione e la sopravvivenza.
«Vorrei tanto dirgli di ficcarselo su per il culo questo lavoro di merda» sbottò Gabriel mentre uscivamo dal supermercato. Noi scrollammo il capo, infastiditi. Ma sotto sotto sapevamo che aveva ragione. Tutti avremmo voluto dire la stessa cosa: «che se lo ficcassero su per il culo». Ma non potevamo. Non potevamo. Anche se ci avevano tolto delle ore di lavoro, nonostante ci avessero ridotto notevolmente le paghe, al di là del mucchio di soprusi che eravamo costretti a sopportare, avevamo bisogno dello stipendio per vivere.
Emblematica delle circostanze a cui i dipendenti sono costretti è la scena – dello stesso capitolo – in cui si confessano nauseati di tagliare polli rancidi. Disossarli. Sentirne l’odore. Traumatizzati dal pesce, dalle terribili esalazioni dei frutti di mare. Esausti e sconfitti dal cartellino appeso sul grembiule, perché – come per l’uomo della prima parte del romanzo – il nome che portano in petto è l’unica cosa che li ricollega agli esseri umani, e un essere umano non può ripetere quelle stesse azioni, in coscienza, ogni giorno, per di più con la consapevolezza che fuori già si agita una fila di disperati pronti a rimpiazzarlo in caso di resa.
Manodopera è un libro soffocante, un trattato che denuncia il mondo e il mercato del lavoro come oggi inteso, non dissimile dall’America Latina ai paesi dell’Occidente, il sistema capitalistico con le sue mire votate esclusivamente alla produzione, in cui i diritti non contano e l’uomo è messo al pari delle macchine che adopera e dalle quali si sente persino minacciato. Sono eroi e martiri i protagonisti del romanzo di Diamela Eltit, combattenti infaticabili (consci che ogni errore si pagherà a caro prezzo) e vittime della performance a tutti i costi, di vite che non lasciano spazio ad altro. Tutto ha un prezzo al supermercato. Anche le loro esistenze.
Manodopera interroga il lettore sul proprio ruolo nella diffusione del sistema consumistico. Il supermercato – sintesi di qualunque altro ambiente operaio – è una scatola tossica che trasla la condizione della vittima fino a colpevolizzarla di quanto è costretta a subire, convinta persino di meritarlo.
Diamela Eltit si conferma una delle voci più autorevoli della letteratura latina. Divenuta celebre grazie ai testi impegnati contro la dittatura di Pinochet, la sua scrittura è un atto di protesta attraverso la quale la scrittrice di Santiago indaga la società e i temi che le stanno a cuore con grande coraggio.
Il racconto, per l’autrice, è l’arte di mettere in scena i grandi argomenti che affliggono l’umanità, le controversie e le contraddizione che la rendono schiava. Il capitalismo, lo sfruttamento, gli effetti della globalizzazione, del mercato del lavoro inteso come catena di montaggio, l’economia liberista, sono fotografati lì dove le dinamiche perverse che instaurano hanno luogo.
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