Il futuro dei giovani di oggi è incerto, più di quanto non lo sia mai stato. Sembra che sia questa consapevolezza a guidare Francesco Spiedo nella stesura del suo romanzo d’esordio. Edito da Fandango e in uscita a ottobre, Stiamo abbastanza bene tenta di rappresentare il viaggio dei ventenni del XXI secolo che vivono una vita in fuga, qualche volta scappando dalle responsabilità, altre dall’incertezza di un domani che non riesce a prendere forma.
Andrea, il giovane protagonista di questa storia tormentata ma non troppo, è fuggito dalla sua città, Napoli, dopo la fine probabilmente inaspettata di una relazione importante. Ora cerca rifugio a Milano, nel tentativo di ridurre il suo dolore mettendo tanti chilometri tra sé e la sua vecchia vita. Ha una laurea in matematica, ma non sa cosa farsene perché non vuole insegnare né lavorare in banca e, non credendo di avere alternative, accetta occupazioni occasionali per pagare il minuscolo monolocale in cui vive e la spesa che non ha mai voglia di fare. L’esperimento di lasciare il suo ieri partenopeo non sembra funzionare, tra le lamentale di una madre che non vede l’ora che torni a casa, una valigia che non si decide a disfare e una sofferenza di cui non riesce a liberarsi.
Il lettore si trova di fronte a un diario di bordo, un racconto che segue Andrea nella sua avventura milanese, nell’incerta quotidianità di una vita appena iniziata e nel suo tentativo di districarsi tra le scelte già fatte e quelle da fare. La narrazione in prima persona ripercorre le giornate del protagonista, spezzando il ritmo del racconto con brevi tratti narrati in seconda persona nei quali Andrea si rivolge a un tu sconosciuto al lettore, un qualcuno evidentemente assente da poco nella sua vita, che tuttavia si intuisce facilmente sia l’altra metà di una storia inaspettatamente finita. Se ogni racconta inizia quando succede qualcosa, infatti, la relazione conclusa che ha dato il via al viaggio di Andrea è solo sottintesa, è sullo sfondo ma non assaporata, e la sua fine data per scontata. Ma sarà proprio quella sofferenza a guidare le scelte del protagonista.
Al racconto delle sue giornate, il narratore frappone momenti di riflessione. Il ritmo è spesso interrotto dalle elucubrazioni di Andrea, che troppo spesso trova rifugio nei numeri. Tenendo il conto degli ordini del bar in cui è seduto, contando le lettere delle parole che gli vengono rivolte, i numeri sembrano una rassicurazione, forse perché la matematica, con il suo essere inopinabile, è rassicurante per un giovane uomo a cui sono venute meno le certezze. Ai flussi di coscienza, poi, si alternano dettagliate descrizioni – dei luoghi, delle strade, delle persone – grazie alle quali il narratore fotografa la realtà e la restituisce al lettore che non può non percepirne l’angoscia.
Il tema principale resta sicuramente la fuga da casa, che conduce a numerosi paragoni tra la familiare Napoli e la frenetica Milano che si rivelano città diverse, ma intrecciate agli occhi di Andrea. E quella fuga coincide con la ricerca di una felicità che il protagonista non sa dove cercare e se mai potrà trovarla, diventando il simbolo dell’insicurezza in cui naviga la sua generazione, ignara di dove la porteranno la vita, il lavoro e l’amore. La storia di Andrea, inoltre, racconta anche il disagio di un emigrato che si ritrova da solo in un luogo sconosciuto, in un posto non molto lontano ma troppo diverso dalle proprie origini, e nel quale il giovane non è neanche certo di voler stare, una situazione che deve ricordare i dubbi e la titubanza di chi per bisogno deve lasciare la propria casa verso luoghi sconosciuti, accompagnato dal senso di colpa per essersene andato.
Se quando è stato scritto, il romanzo raccontava un momento diverso da quello che stiamo vivendo, qualche anno prima che la vita di tutti venisse stravolta dall’inaspettata pandemia che ha segnato la nostra quotidianità, la storia di Andrea si rivela estremamente attuale, in grado di sintetizzare le incertezze del presente. E i tentativi di un giovane talvolta inflessibile e ostinato che tenta di superare le proprie rigidità e di mettersi alla prova, seppur con qualche momento di sincero sconforto, potrebbero rappresentare il giusto esempio di cui abbiamo bisogno per accettare l’angoscia senza lasciarci guidare da essa, anche nei momenti di crisi apparentemente insuperabili.
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