Sembra assurdo doverne parlare ancora, ma l’aborto resta tuttora una questione irrisolta. Non solo sono numerosissimi i Paesi che non riconoscono questo e tanti altri diritti delle donne (soltanto 60 Stati permettono l’accesso libero e legale all’interruzione volontaria di gravidanza), ma aumentano anche quelli che, invece di legalizzarlo o facilitarne l’accesso mettendosi al passo con i tempi, provano a renderlo sempre più inaccessibile e socialmente inaccettabile. Tra questi spiccano in particolare due Stati, entrambi membri dell’ONU: la Polonia, che rende le leggi sempre più restrittive, e gli USA, che provano a diventare i leader dei Paesi antiabortisti.
Ultimamente, la Polonia non fa parlare di sé grazie a belle notizie. Solo pochi mesi fa aveva ribattezzato la sua posizione nei confronti dei diritti delle donne con l’uscita dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica. Oggi, invece, torna alla ribalta con la nuova normativa sull’aborto: la Corte Costituzionale ha votato a favore di un inasprimento della già inaccettabilmente rigida legge che rende ancora più difficile la vita della popolazione femminile, aggravando il suo stato di libertà in un Paese in cui ogni anno in 100mila sono costrette a recarsi all’estero per poter interrompere la gravidanza.
Il Paese europeo con la legge più antiabortista dell’Unione si difende dietro il suo radicato e opportunistico cattolicesimo e dietro la tutela della dignità dell’individuo quando afferma che l’aborto non è lecito in caso di malformazioni fetali, costringendo a dare alla luce figli che non hanno speranza di vivere. Ma, sebbene questa sia una novità degli ultimi giorni, le donne polacche e buona parte della società civile hanno già da tempo dato il via alle proteste più aspre contro una legislazione inammissibile ancor prima delle recenti modifiche. Simbolo della loro lotta, un fulmine rosso su sfondo nero e una gruccia appendiabiti, che per decenni è stato lo strumento con cui effettuare l’aborto casalingo, quello illegale e pericoloso, che a causa della nuova legge rischia di tornare l’unico modo per poter usufruire del diritto negato.
L’hanger abortion è stato praticato in tutto il mondo, anche in Italia, quando l’interruzione di gravidanza non era attuabile legalmente. Un vero e proprio intervento, un’operazione al limite, che praticata per anni senza la giusta strumentazione e l’igiene necessaria, ha ucciso moltissime donne. Oggi, purtroppo, si torna a parlarne a causa delle norme di uno Stato europeo che da tempo contrasta il più possibile la scelta riproduttiva femminile. La gruccia, quell’affare su cui si appendono giacche e pantaloni, è diventato il simbolo dei passi indietro. In una paradossale epoca storica in cui si parla di modernità, di diritti, di discriminazioni ormai superate, quell’aggeggio di metallo che regalano in lavanderia torna a svolgere una vecchia funzione, una che non avrebbe mai dovuto avere e che mai avremmo immaginato potesse riacquistare. È in nome di queste pericolose regressioni, e di quella libertà che sembra farsi sempre più fragile, che le proteste animano le piazze di una terra in cui l’aborto è consentito solo in caso di stupro, incesto o pericolo di vita della madre.
Ai tanti che direbbero – e che dicono – che l’interruzione di gravidanza non è un contraccettivo d’emergenza né dovrebbe essere il metodo per liberarsi delle responsabilità, non si potrebbe dar torto se solo esistessero metodi contraccettivi efficaci al cento per cento, se non esistessero gli incidenti, se gli errori non fossero parte indiscussa dell’agire umano, se ai giovani di quei Paesi troppo rigidamente religiosi venisse insegnato qualcosa sull’educazione sessuale, sulla contraccezione, sulla consapevolezza di sé. O, forse, neanche in questi casi, perché non esiste condizione in cui la morale coincida con la legge. Ma se anche questi improponibili fattori fossero magicamente attivi, c’è da chiedersi in quale utopico universo tutti gli stupri siano considerati tali, tutti gli stupratori condannati e tutte le donne abusate tutelate da una legge che, in grado di riconoscerle senza perderne nessuna, consenta loro di abortire in quanto unica eccezione ammessa.
Intanto, mentre in Polonia avvengono le proteste, gli USA firmano la Geneva Consensus Declaration, mettendosi a capo di un gruppo di Paesi che si dice a favore dei diritti delle donne ma nega che tra questi possa esserci l’aborto. È da alcuni anni, in effetti, che l’amministrazione Trump tenta di coinvolgere altri interlocutori nella sua battaglia contro la scelta riproduttiva femminile e pochi giorni fa il Segretario di Stato Pompeo ha firmato la dichiarazione di cui si è fatto promotore, che ipocritamente afferma di avere a cuore la salute delle donne, rinnegandone però le libertà e legandosi ai Paesi più illiberali del mondo nel dichiarare che non esiste diritto internazionale all’aborto né alcun obbligo internazionale da parte degli Stati a finanziare o facilitare l’aborto. Per fortuna, l’appello è stato raccolto solo da 32 Paesi, tutti ovviamente guidati da governi autoritari e considerati dall’indice Women, Peace and Security tra i luoghi peggiori in cui una donna possa vivere.
Ma se l’iniziativa americana ha avuto poco seguito, c’è comunque da chiedersi cosa muova questi uomini di Stato, queste Corti Costituzionali del ventunesimo secolo, questi politici alle prese con una pandemia, una crisi sanitaria mondiale e una crisi economica altrettanto paralizzante, a lottare non per il riconoscimento di quei diritti ancora inspiegabilmente negati, ma per rendere più difficile la vita dei propri cittadini. Chissà quale minaccia al loro potere devono intravedere tra le donne che si liberano dai retaggi del passato e si affermano come individui. E chissà che piacere perverso devono provare nel tentativo di costringerle a regredire, a vedersi negati diritti conquistati a malapena, che ancora non hanno la totale approvazione sociale, e a tornare inevitabilmente a quelle condizioni invivibili che hanno distrutto la vita di molte di esse. C’è da chiedersi, insomma, da dove provenga tutta questa voglia di tornare indietro e di rivivere quei secoli bui in cui le donne rischiavano la vita quotidianamente.
Sono tante, probabilmente troppe per essere contate, coloro che nel corso della storia umana, quella civile e civilizzata, si sono ritrovate a fare i conti con le ingiustizie nei confronti di una gravidanza indesiderata. E, in mancanza di quelle leggi che oggi le tutelano – solo in alcuni luoghi, solo in alcune comunità e solo a determinate condizioni – si saranno ritrovate di fronte a una scelta: abortire clandestinamente, mettendo in pericolo la propria vita attraverso operazioni dolorose e non anestetizzate eseguite da mani inesperte, in luoghi non sterili e con strumenti improvvisati, e rischiando ancora di più la dignità sociale in un’epoca che non considerava l’aborto un diritto; oppure portare a termine la gravidanza, una non desiderata, magari causata da una violenza, molto comune negli anni e nei luoghi in cui alle donne non sono riservati diritti, e accettare con silenziosa vergogna e insopportabile sofferenza di essere dilaniate nel corpo e nell’anima non da una maternità voluta che tutto perdona ai propri figli, anche le sofferenze più atroci, ma da una maternità imposta e forzata, uno straziante martirio non accettato come pegno d’amore ma obbligato come pegno d’onore.
È un po’ tutta così, a pensarci bene, la storia femminile dall’alba dei tempi, la storia di persone non abbastanza umane che non hanno voce né diritti, che non hanno menti ma solo corpi – in genere di altri – e che hanno un unico compito, quello di procreare, di continuare la specie, di prestare se stesse al bisogno di assicurare un futuro al nome, e neanche il proprio, ma quello dei loro mariti. Ed è così anche oggi, che alle donne è formalmente riconosciuta la stessa importanza degli uomini – sebbene il riconoscimento di un diritto non valga molto se non esistono tutele che lo sostengano, anche oggi che di diritti riproduttivi non si vuole parlare, né si utilizzano questi termini, evidentemente perché sembrerebbero quasi mettere in discussione l’imprescindibilità della riproduzione, del desiderio di maternità, di quel diritto che in realtà è sempre stato più un dovere.