L’uomo è antiquato, scrisse Günther Anders alla metà del secolo scorso nella sua memorabile e omonima opera, di fronte alla riflessione sulla moderna subalternità dell’uomo rispetto al mondo delle macchine da lui stesso create. Il mito dell’antropocentrismo, intanto, basato sulla presunta superiorità dell’umano rispetto alle altre forme di vita, nei decenni successivi, cedeva il posto a una riconsiderazione del rapporto degli esseri umani con gli altri esseri viventi. Il postumanesimo, tuttavia, guarda gli sviluppi della scienza e delle tecnicologie e riproblematizza il concetto stesso di natura umana, che alcuni studiosi intendono come artificiale.
Il pensiero della filosofa Rosi Braidotti (Latisana, 28 settembre 1954) costituisce uno dei contributi più interessanti sulla condizione postumana, considerata come un costrutto della nostra storia e non un’utopia che si realizzerà in un tempo futuro. Le sue riflessioni si focalizzano sulla costruzione della soggettività, tra scienze umane e politica, teoria femminista e di genere e le analisi dei processi culturali che hanno portato al mondo contemporaneo.
La studiosa italiana si trasferì con i suoi familiari in Australia, negli anni Settanta, laureandosi presso l’Università di Canberra e in seguito ottenne il diploma di filosofia in Francia, alla Sorbona, nel 1981. Dal 1995 al 2005, fondò e diresse la Scuola olandese di ricerca in Women’s studies. Attualmente, insegna all’Università di Utrecht, in qualità di Eminente Professore universitario e dirige il Centre for the Humanities.
Rosi Braidotti riflette sul concetto della differenza, così come è stata descritta dalla filosofia europea e per le conseguenze che ha avuto sulla teoria e le pratiche della politica. Nei suoi primi saggi – Patterns of Dissonance: An Essay on Women in Contemporary French Philosophy (1991) e Nomadic Subjects: Embodiment and Difference in Contemporary Feminist Theory (1994) – scrive sulla capacità della differenza di opporsi alla dialettica che riduce il valore della differenza in favore dell’identità.
Lo sforzo teorico e metodologico della filosofa parte dal concetto di comprensione adeguata del grande pensatore olandese Baruch Spinoza (1632-1677), che aiuta a fare chiarezza sulle rappresentazioni culturali di un mondo dove i processi conoscitivi sono elaborati in un ambiente fisico naturale, ma sempre più mediato dalle protesi tecnologiche che gli esseri umani usano per vivere nel mondo globalizzato. Altri autori che hanno influenzato le sue riflessioni sono stati Gilles Deleuze, Michel Foucault e Luce Irigaray.
Gli scritti di Rosi Braidotti propongono di andare oltre la “gabbia” della gerarchia e dell’opposizione binaria nella quale sono recluse le differenze di genere, etniche e culturali e, al tempo stesso, analizzano le distinzioni che la scarsa attitudine all’interdisciplinarietà degli autori di area umanistica hanno, spesso, tralasciato: sé e altro/a, europeo/a e straniero/a, fino a umano e non umano. Nella sua opera del 2006, Trasposizioni. Sull’etica nomade, ad esempio, pubblicata in Italia nel 2008 (Luca Sossella Editore), la Braidotti indaga sulla possibilità di abbandonare l’etica e la politica legate all’identità, in favore di una concezione nomadica del soggetto, che si opponga alle ideologie e alle pratiche pubbliche conservatrici dell’individualismo liberale e capitalistico.
Nel suo libro più famoso, Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte (DeriveApprodi, 2014), Rosi Braidotti ci parla della struttura non naturalistica di ciò che noi chiamiamo “umano” e si propone di far uscire anche la filosofia e le scienze umanistiche dalla logica dell’autodefinizione dell’umano, che funziona in maniera gerarchica e per esclusione di altri enti e ambiti della vita e che non considera le altre specie, quindi la sostenibilità dell’intero pianeta Terra.
Le sue analisi convergenti tra postumanesimo e post-antropocentrismo si arricchiscono con i temi della tecnoscienza e rilanciano il femminismo postmoderno nell’era dell’informazione, reinterpretando le differenze tra uomo/animale e uomo/macchina, anche sulla scia della teoria cyborg – dove il cyborg è al contempo uomo e macchina, figura di fantasia e metafora della condizione esistenziale – portata avanti dalla filosofa statunitense Donna J. Haraway, soprattutto nella sua opera Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (Feltrinelli, 2018), testo fondamentale sulle implicazioni della tecnologia e della scienza nella vita degli uomini e delle donne del mondo contemporaneo.
Nell’opera più recente di Rosi Braidotti pubblicata in lingua italiana, Materialismo radicale. Itinerari etici per cyborg e cattive ragazze (Meltemi, 2019), l’autrice si domanda se sia possibile un’etica affermativa da opporre alle pratiche securitarie dei sovranismi e delle democrazie nate e sviluppatesi, comunque, nell’ambito della tradizione che ruota attorno alla struttura binaria e al dualismo concettuale asimmetrico. Quest’ultimo agisce su coppie categoriali come uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente e, in ultima analisi, nella tradizione etica e socio-politica occidentale, i dualismi sono sempre stati funzionali alle concettualizzazioni e alle pratiche del dominio sulle donne, sulla gente di colore, sugli emarginati, sugli animali e sulla natura.
Il postumanesimo di Rosi Braidotti e la critica alla soggettività del pensiero tradizionale puntano all’elaborazione di un’etica affermativa – e la studiosa fa l’esempio delle “cattive ragazze” (dalle Pussy Riot alle eco-femministe fino alle attiviste antirazziste e antispeciste) – per contrastare il nichilismo contemporaneo e proporre una visione alternativa all’individualismo morale e sociale dominante. Una nuova narrazione per il futuro, insomma, che possa produrre rappresentazioni culturali ed elaborazioni etico-politiche in grado di affrontare le sfide del pluriverso animale, ambientale e tecnologico che chiamiamo sistema-mondo globalizzato.