Carbonio Editore ha pubblicato, a cavallo tra aprile e maggio, l’esordio di Julia von Lucadou, scrittrice tedesca classe 1982, già assistente alla regia e redattrice televisiva. In TV, in onda su tutti i canali, si può trovare un assaggio della distopia che l’autrice dirige tra le pagine de La tuffatrice. Si tratta dell’ultimo spot di Apple Watch. Il gioco di copywriting della pubblicità viene impostato sul tono di divertita superiorità del colosso di Cupertino all’affermazione che un dispositivo capace di monitorare il sonno, registrare le pulsazioni, gestirti la vita direttamente dalla microscopica superficie del tuo polso, sia una tecnologia ormai scontata.
In effetti, oggi diamo per scontato che i nostri dispositivi intelligenti ci ricordino gli appuntamenti, il pin delle carte di credito, l’identità digitale, cosa comprare pagando con il riconoscimento facciale, ci dicano quanto mangiare, quanto camminare, quanto dormire, quanti e quali esercizi fare per tenersi in forma, dove abbiamo parcheggiato la macchina, qual è la strada migliore da percorrere… la lista è infinita. I dispositivi smart sono diventati strumenti indispensabili, appendici ad alto funzionamento di noi stessi. Assolvono il compito di facilitatori, eliminano il ronzio sottostante delle scocciature più o meno piccole del quotidiano per permetterci di concentrarci su ciò che è davvero importante. E cosa può esserci di così importante da spingerci a chiedere a un’app di ricordarci di andare a letto? Siamo così attenti ai nostri parametri di produttività e performance, ad attribuire valore alle vite degli altri e alla nostra sulla base dei traguardi raggiunti – rigorosamente misurabili in moneta – e poi ci dimentichiamo di andare a dormire!
Julia von Lucadou ambienta il suo romanzo in una realtà in cui gli aspetti disfunzionali e schizofrenici della nostra sono portati all’estremo. Ci troviamo chiaramente dinanzi a un esperimento di distopia poiché il libro ricalca gli stilemi ben noti del genere: la società distopica de La tuffatrice abita una megalopoli dalla posizione geografica imprecisata. Intorno alla megalopoli di vetro e impalpabilità spingono le periferie grigie, puzzolenti, inospitali; gli individui vengono sottoposti a sterilizzazione, le nascite sono pianificate, il futuro viene determinato da test attitudinali, statistiche e status. Il lettore già avvezzo a questa particolare forma narrativa si troverà a dover fare i conti con una sensazione, crediamo non casuale, di familiarità francamente inquietante. Lucadou, secondo il parere di chi scrive, attinge apertamente ad Huxley e al suo Mondo Nuovo: sono chiare allusioni al capolavoro del genere il controllo delle nascite e la dicotomia di centro e periferia. Un centro narcisista, infantile, snaturato e automatizzato contrapposto a una periferia degradata, vivida, autentica.
Nonostante non sia propriamente innovativo, anzi forse proprio a causa di questa sua tradizionalità, La tuffatrice è una distopia solida e ben riuscita. Lucadou non ha bisogno di fornire un background alla sua società distopica, perché a chi legge le vicende dei personaggi sembrano una deriva naturale e futuribile del mondo abitato da loro. Scorgiamo, infatti, già in questa realtà, l’embrione di un’estremizzazione dell’individualismo, del progresso per il bene del progresso, della presenza ingombrante del digitale, della documentazione video di momenti banali, della fama fatua e della retorica della positività a ogni costo.
La tuffatrice è un’atleta che si lancia dai grattacieli per professione. A un certo punto della sua formidabile carriera, qualcosa dentro di lei si inceppa e comincia a sperimentare dei sintomi simili a quelli della depressione. Da questo momento in poi, il suo tasso di produttività cala drammaticamente e la società che la “possiede” in scuderia comincia a preoccuparsi delle perdite. La protagonista e voce narrante del romanzo è la psicologa affidata al caso della tuffatrice. Suo compito è rimettere in sesto l’atleta Riva Karnovsky e far sì che torni a tuffarsi prima possibile, compatibilmente agli interessi degli investitori. Lo stato della salute mentale di Riva non interessa, in realtà, a nessuno. Come una macchina, deve riprendere a funzionare e basta.
L’occhio cinematografico di Lucadou si rivela nelle numerose istantanee e inquadrature che offre all’interno del romanzo: la trama si dipana attraverso gli obiettivi delle telecamere di sorveglianza. Una storia raccontata per immagini osservate dietro il filtro blu dello schermo di un computer. Già da questo particolare è possibile notare il sarcasmo amaro e pungente della scrittrice: in questa società disfunzionale che potrebbe essere la nostra, il lavoro dello psicologo si riduce a compilatore di tabelle statistiche, osservatore di una cavia da laboratorio umana. Il suo incarico non ha niente a che fare con la psiche dell’atleta. La protagonista non interagisce mai direttamente con la Tuffatrice e nella distanza che impedisce il contatto umano nessuna diagnosi può mai essere corrispondente al vero. Quella che la protagonista osserva (spia) dalle telecamere è una donna che le rimarrà per sempre estranea, una bambola di pezza che nella sua vita interpreta il ruolo di obiettivo da portare a termine.
La distopia di Lucadou è una critica sagace alla mentalità da siate imprenditori di voi stessi, ingollata a forza dalle generazioni nate e cresciute in un Occidente già sterile a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, ormai imperante sui social network sotto forma di filosofia spicciola, suggerimenti di lifestyle e video-storie sulle auto e gli oggetti di lusso. La ferocia con cui l’autrice intasa il tablet della sua protagonista di notifiche sulle performance o sugli allenamenti mancati per raggiungere la miglior versione di sé, richiesti dall’azienda per cui lavora e sanciti da contratto, lascia intravvedere la nera angoscia dietro la società della motivazione. Di ogni se lo vuoi davvero ce la fai, di ogni bisogna entrare in contatto con il nostro io profondo per sviluppare un atteggiamento positivo – così in voga nella cerchia dei corsi motivazionali – viene mostrata un’altra faccia: la sproporzione e la disparità nell’offerta delle possibilità di “farcela”, la frustrazione dell’incertezza, i disturbi di salute mentale derivanti dal non sentirsi mai all’altezza del compito e sempre in bilico sul baratro del fallimento.
I personaggi di Lucadou sono fissati con la mindfulness, ma in questo contesto la pratica assume più che altro l’accezione di riprogrammazione e manipolazione dello stato d’animo: la mindfulness è un orpello della vita produttiva, un modo per smettere di interrogarsi sui perché e concentrarsi sul quanto. Al racconto non è, però, affidato alcun messaggio di stampo morale. Le ultime pagine lasciano dentro un arido vuoto. D’altro canto, un romanzo distopico che voglia dirsi veramente riuscito non deve offrire una lezione: deve, invece, invitare il lettore a riempire quel vuoto con le proprie riflessioni. Specie se riscontra nel libro dei punti di contatto con la sua esperienza.
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