Quando si parla di internet o social media, sembra quasi inevitabile accompagnare le conversazioni con delle polemiche, critiche su come il web funzioni, abbia modificato lo società, renda i giovani superficiali e inetti. Non è difficile imbattersi in quelle notizie, narrate proprio per porgere le orecchie a queste critiche e ottenere click, che descrivono l’indignazione popolare – del popolo non digitalizzato, ovviamente – scaturita dall’ultima trovata dell’influencer di turno, del museo che se ne serve per farsi pubblicità o dell’istituzione che spera di trarre un vantaggio pubblico da una collaborazione.
Si tratta, per lo più, di polemiche sterili, frutto di una concomitanza di fattori che ne spiega la persistenza. Tutto parte, indubbiamente, dal divario generazionale tra i cosiddetti millennials e quelli che, invece, ricorrono poco al digitale senza sfruttarne al massimo le potenzialità. Nulla di strano, a dire il vero, perché, proprio com’è sempre stato, le generazioni più mature restano legate alle proprie abitudini, ai propri mezzi di comunicazione, e guardano con sospetto al progresso. Dunque, non è un problema di internet, ma è dell’evoluzione che continua a spaventare.
Alla distanza tra generazioni, poi, si aggiungono gli effetti che la creazione di un nuovo media comporta. Lo diceva già Marshall McLuhan, il padre degli studi in materia, nel 1964, quando del web partecipativo non esisteva neanche l’ombra, affermando che l’emergere di un nuovo mezzo di comunicazione di massa produce inevitabilmente degli effetti, ma non porta mai alla totale scomparsa dei precedenti, semplicemente a nuove dinamiche a cui i vecchi media si adattano, mentre i nuovi riproducono i codici che ereditano dai loro predecessori. Si tratta dunque di effetti non catastrofici e neanche troppo radicali, che non cambiano la società, ma seguono e accompagnano il progresso, seppur inizialmente guardati sempre con sospetto. D’altronde, anche l’introduzione della televisione ha scatenato una buona dose di critiche sull’uso che se ne faceva, per non parlare della radio, ora considerata un medium innocuo, ma che con la sua prima diffusione è stata in grado di diffondere il consenso a tal punto da condurre le folle novecentesche verso i totalitarismi.
Insomma, il sospetto nei confronti dei nuovi media c’è sempre stato e in fondo è in qualche modo giustificabile poiché, se non può essere considerata la causa primaria di un importante cambiamento, ne è per lo meno un sintomo evidente. Ma, mentre la prospettiva del progresso non dovrebbe spaventare così tanto e le critiche non dovrebbero essere sempre arbitrarie e infondate, è bene rendersi conto che certe dinamiche che ci appaiono sconosciute in realtà non sono figlie della contemporaneità. Come avrebbero detto i padri della comunicazione, si tratta solo di riproduzione di vecchi codici già esistenti.
Negli ultimi giorni, l’indignazione pubblica nei confronti del web è stata guidata dalla richiesta del Presidente del Consiglio fatta a due noti influencer, Chiara Ferragni e Fedez, di sensibilizzare i giovani sulle misure di sicurezza per prevenire i contagi e, soprattutto, sulla necessità di indossare la mascherina. La richiesta è apparsa ai più come ragionevole poiché, sovrani indiscussi dei numeri di Instagram, i Ferragnez avrebbero sicuramente ottenuto visibilità e ascolto tra i follower. L’indignazione è però scaturita dall’incomprensibile necessità di rivolgersi a degli intermediari – tra l’altro appartenenti a un’élite mediatica per lo più sconosciuta agli over 40 – per convincere i giovani a seguire le direttive e ad ascoltare le autorità. Le critiche sono state molto simili a quelle che vengono fuori ogni volta che una star del web è invitata a promuovere una mostra, un museo o un’iniziativa culturale, attraverso la stessa irragionevole argomentazione: possibile che i giovani di oggi siano così ignoranti che bisogna pubblicizzare la cultura attraverso questi vuoti influencer? Possibile che non seguano le direttive al punto tale che bisogna veicolare i messaggi tramite i contenuti di Instagram?
Se ci sia o meno un fallimento valoriale è opinabile. Certamente il bisogno di far ricorso a intermediari per veicolare cultura o responsabilità è triste, ma non è una novità dei tempi che corrono perché questo meccanismo bifasico è sempre esistito. Certo il ruolo della famiglia come fonte primaria di valori sta forse venendo meno ed è probabilmente spiegabile con il fatto che è la prima volta nella storia che l’esperienza dei genitori non basta, che sono gli adulti a rivolgersi ai giovani per essere istruiti su qualcosa, nel nostro caso sul modo di utilizzare quella tecnologia digitale di cui sono nativi. Ma se quella narrazione ormai ridondante dei figli che non imparano più, che non rispettano più, che non hanno più i valori di una volta sta acquisendo tanta visibilità, sarebbe giusto rendersi conto del fatto che se i giovani cercano dei riferimenti altrove, è perché nelle stesse famiglie non li trovano. Al di là di queste consapevolezze, però, il fallimento culturale arriva da tanti altri aspetti e ideologie della nostra società ben più gravi dell’uso che si fa di Instagram, e il ricorso all’influencer non ne è né la causa né la prova, soprattutto considerando che chiedere a Chiara Ferragni di educare all’uso delle mascherine non è diverso dal chiedere a un noto attore di partecipare a una campagna di sensibilizzazione che va in onda sulla RAI.
Il problema di queste polemiche non risiede tanto nell’ipocrisia di chi ha sempre fatto uso degli stessi stratagemmi, ma nell’inconsapevolezza di non essere poi tanto diversi. Era il 1955 quando i sociologi Lazarsfeld, Berelson e Gaudet elaboravano la teoria del flusso di comunicazione a due stati. Secondo gli studiosi americani, la comunicazione non agisce attraverso un flusso costante e diretto che dagli emittenti colpisce direttamente i destinatari, ma è prima assimilata dai membri più influenti delle comunità e poi veicolata in base alla loro sensibilità. Molto prima dell’avvento di Instagram, dunque, veniva teorizzato il ruolo degli influencer, allora definiti leader d’opinione capaci di guidare l’attenzione del pubblico su notizie e informazioni. Le novità introdotte dal web, più che peggiorare la situazione, in realtà la migliorano, perché le piattaforme digitali permettono a chiunque di accedere alle informazioni, ricondividere i messaggi e creare numerosi nodi di opinion leaders, invece di essere inevitabilmente legati alle scelte dei personaggi più influenti.
Che queste dinamiche avvengano sul web o in tv non cambia molto se non, probabilmente, il tipo di pubblico perché, come è normale che sia, anche il sistema dei media si evolve e oggi i numeri dei programmi in prima serata sono equivalenti a quelli raggiunti dai dieci influencer più celebri sui social. Ciò che è cambiato è solo la diversificazione degli utenti, a causa della quale è impossibile rivolgersi ai più giovani tramite la televisione, mezzo di cui non fanno più uso, ed è più funzionale invece sfruttare i loro canali abituali. Il ricorso ai leader d’opinione, invece, non rappresenta nulla di nuovo: basti pensare alle innumerevoli campagne di sensibilizzazione condotte dal Ministero della Salute che si è servito di spot televisivi e personaggi famosi per veicolare numerosi messaggi, dai pericoli del fumo a quelli del consumo di alcol alla guida.
Alla fine dei conti, non ci sono novità rilevanti sull’uso che le istituzioni fanno dei media per parlare alla nazione. Non c’è differenza tra lo spot che va in onda in prima serata e le fotografie postate sui profili più seguiti di Instagram. Non cambia neanche il sospettoso pregiudizio nei confronti del nuovo, cambia solo l’oggetto di tali critiche. E mentre ieri era la televisione e oggi sono i social media, appena nasceranno altri mezzi di comunicazione, la gara di legittimità inizierà daccapo.