La salvaguardia della salute pubblica è una priorità. Su questo non ci sono dubbi, soprattutto durante il tragico periodo che stiamo vivendo e che ci ha insegnato quanto tutto il resto possa essere sacrificato in favore della cura alla vita. In passato, lo si è dato spesso per scontato in luoghi come l’Italia, in cui l’assistenza sanitaria è garantita a tutti, in cui non si paga per un intervento o per i quotidiani farmaci salvavita. Al contrario, la preziosità della salute è forse un po’ più evidente nei Paesi in cui costa cara e in molti non possono permettersela. Ciò che è certo è che a essa spetta il primo posto, soprattutto in pandemia. Ciò che invece non è chiaro è cosa ci sia al secondo posto, cioè a cosa, una volta salvaguardata la salute, non si può in alcun modo rinunciare.
Qualcuno, probabilmente, direbbe l’economia e a pensarlo non sono solo industriali e finanzieri che non vedono l’ora di riprendere i consueti guadagni pre-COVID. Anzi, è piuttosto normale che l’opinione comune sia questa, in particolare nell’attuale fase di incertezza in cui ogni piccola attività ha bisogno di lavorare più che mai. Insomma, si direbbe che la seconda priorità sia il pane a tavola. Una conclusione simile ce la si aspetta da chiunque, vivendo ciascuno, nel proprio piccolo, ragioni sulla base delle sue osservazioni. Ma ragionando con la lungimiranza che si richiede alla classe dirigente, pensando al futuro dei cittadini e del Paese, al secondo posto sulla scala delle priorità dovrebbe comparire una voce diversa, spesso ignorata, che venga prima dell’economia, prima dei guadagni e prima del pane. Sia chiaro, con questa affermazione non si intende dire che il benessere pubblico non sia importante né si vogliono sminuire la crisi e la povertà che la pandemia, il lockdown e tutte le altre restrizioni stanno causando. Si sta solo tentando di affermare che, mentre la priorità assoluta nel breve periodo è giustamente il contenimento della pandemia, le conseguenze del lungo periodo hanno a che fare con un’altra questione altrettanto fondamentale: l’istruzione.
Si è già abbondantemente parlato dell’efficacia della didattica a distanza, di digital divide, dei fantomatici banchi e della maldestra gestione della scuola da parte del governo, dell’intraprendenza dei docenti o dell’arte di arrangiarsi che non dovrebbe diventare l’unico strumento a cui poter fare appello per garantirsi un’istruzione. Ma, sebbene se ne parli, la scuola resta – come sempre – l’ultima ruota del carro. La decisione dell’interruzione dell’attività scolastica per due settimane che ha sorpreso gli abitanti della Campania è solo l’ennesima prova di quanto il connubio tra la cattiva gestione della seconda fase della pandemia e il totale menefreghismo nei confronti dell’istruzione rischi di diventare letale. Quella che dovrebbe essere l’ultima spiaggia, negare o in qualche modo ostacolare la formazione scolastica in favore della salute pubblica – questa la versione ufficiale –, si sta trasformando in un sacrificio chiesto ai giovani e al loro futuro.
In momenti di necessità non si può discutere una decisione del genere, come accaduto lo scorso marzo con il sofferto ma probabilmente indispensabile lockdown, tuttavia attuare misure tanto estreme quando potrebbe non essere necessario è imperdonabile. D’altronde, sono molte le cose che si sarebbero potute fare in Campania per evitare di giungere a questo punto, ma sarebbe stato necessario impegnarsi proprio in quei mesi in cui la campagna elettorale per le Regionali viveva il suo clou, e dunque risulta chiaro perché la pandemia abbia smesso di essere prioritaria.
È certo che le misure estreme, per quanto non auspicabili, vadano prese in considerazione quando serve. Ma è anche vero che così come si cerca di fare il possibile per evitare un nuovo lockdown, lo stesso dovrebbe accadere per la scuola. Invece, pare proprio che la superficialità con cui sono stati affrontati gli ultimi mesi risulti giustificata dal sempre pronto estremismo di turno, quello che per non danneggiare nessuno, danneggia tutti. Ma non è solo la scelta di chiudere le scuole prima di limitare altre attività che si vuole criticare. Secondo gli ultimi dati raccolti dal Ministero della Salute, la maggior parte (80%) dei focolai rilevati finora si verifica in ambito domiciliare e hanno un’incidenza non trascurabile anche le attività ricreative. La diffusione intra-scolastica, invece, pare al momento piuttosto contenuta, sebbene sia tuttora difficile fare un tracciamento che sia realmente attendibile. Ciò che è certo è che sono le attività non controllate o difficilmente controllabili a generare focolai, come – e soprattutto – i mezzi pubblici, che mantengono gli stessi affollamenti già inaccettabili in epoca pre-COVID, e la cui capienza non è affatto regolamentata come invece accade nel resto d’Europa. I numeri dei contagi, quelli dello scorso inverno e quelli di oggi, parlano chiaro su quanto siano gli ambienti lavorativi i più a rischio, così come dimostrano i numeri nel napoletano, che identificano il pericolo nei quartieri commerciali e descrivono come quasi COVID-free le zone residenziali.
La decisione di chiudere le scuole una volta sfiorati i 1200 positivi non è un atto di responsabilità, come ha tenuto a specificare De Luca, ma la prova dell’irresponsabilità delle azioni compiute fino a ora. Non si può incolpare la scuola dell’aumento dei contagi, quando i mezzi pubblici per recarvisi sono affollati, perché non è la scuola ad affollarli ma l’assenza di un incremento delle corse o della garanzia di un trasporto pubblico efficiente. Non si può incolpare la scuola dei decessi, se gli ospedali non sono ancora stati attrezzati e ai medici non sono forniti dispositivi di sicurezza, neanche dopo sette mesi dall’inizio della crisi. Non si può incolpare la scuola se il clima lascivo dell’estate è stato alimentato da quelle stesse autorità che adesso lo condannano.
Le colpe, che non sono tutte del governatore della Campania, ma condivise con un’intera classe politica che non ha realmente preparato le scuole, le famiglie e il personale al nuovo anno, non si vogliono scovare per puntare il dito, ma per invitare a risolvere i problemi prioritari prima di giungere a misure estreme. Sottovalutare la gravità di una decisione del genere è, invece, oltremodo scoraggiante, perché dimostra quanto il ruolo dell’istruzione sia svilito e la sua importanza, sia per il singolo sia per la collettività, invisibile agli occhi di chi ci governa.
Proprio in un periodo come questo, in cui la comunicazione istituzionale si rivela fallace e la popolazione italiana si ritrova con quegli stessi dubbi di marzo, lasciati a fermentare, alimentando il negazionismo e la sfiducia nei confronti delle istituzioni, proprio adesso la scuola dovrebbe rappresentare l’appiglio a cui agganciarsi. Perché ciò che la scuola fa non è solo iniettare conoscenza, ma insegnare a pensare, a ragionare, a capire e a mettere in discussione. E che il COVID-19 sparisca in pochi mesi o affligga le nostre vite per molti anni ancora, la decisione di privare i giovani della propria formazione per consentire che i politici continuino ad avere atteggiamenti superficiali è il modo più semplice per mettere a repentaglio un futuro già troppo incerto.