Nei giorni scorsi si è molto parlato della nomina del nuovo giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti che dovrà sostituire Ruth Bader Ginsburg, morta poche settimane fa. Il Presidente Donald Trump ha infatti proposto – a sole tre settimane dalle elezioni che lo vedranno sfidarsi con Joe Biden – il nome di Amy Coney Barrett, nota per le sue posizioni ultraconservatrici. Se la nomina venisse confermata dal Senato, data la sua giovane età (appena 48 anni), la Corte Suprema rischierebbe di spostarsi decisamente a destra per i prossimi tre decenni. Al momento, i giudici designati da presidenti repubblicani sono cinque – che diventerebbero sei con la Barrett – e appena tre quelli indicati dai democratici. Dall’inizio del suo mandato, Trump ne ha già nominati due molto conservatori, Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh, che condividono le sue posizioni su alcuni dei temi più importanti sui quali la Corte è chiamata a pronunciarsi, tra cui il diritto all’aborto, la pena di morte, il possesso di armi e l’estensione del servizio sanitario nazionale.
Ciò che più preoccupa è che la Corte sarà chiamata a dirimere anche eventuali controversie riguardanti le elezioni presidenziali, già di fatto annunciate da Trump, la cui strategia è seminare dubbio e sospetto sulle elezioni stesse, contestando l’utilizzo del voto per posta il cui uso crescerà sicuramente a causa della pandemia in corso. L’attuale Presidente ha quindi tutto l’interesse a nominare un ulteriore giudice schierato dalla parte dei repubblicani, avendo già preannunciato di non essere certo di dare luogo a un passaggio pacifico del potere nel caso di vittoria di Biden. Potrebbe così ripetersi quanto accaduto nel 2000, quando furono i giudici e non i cittadini a mandare alla Casa Bianca George W. Bush.
Nel 2016, invece, fu il capo dei senatori repubblicani Mitch McConnell a impedire la nomina del nuovo giudice Merrick Garland da parte di Obama poiché si riteneva che il voto fosse troppo vicino, sebbene mancassero ben otto mesi. In questo caso, invece, è lui stesso a premere perché il Senato si esprima, potendo contare su una maggioranza di cinquantatré membri. In realtà, due senatrici repubblicane, Susan Collins e Lisa Murkowski, si sono dette contrarie alla nomina e, ora che tre dei senatori che hanno partecipato alla cerimonia di nomina di Amy Coney Barrett tenutasi alla Casa Bianca lo scorso 26 settembre sono risultati positivi al coronavirus, la maggioranza – e quindi l’assegnazione dell’incarico – sembra essere compromessa.
Al di là di come si concluderà la questione, ciò che è certo è che la Corte Suprema esprime in moltissimi casi il potere e le posizioni presidenziali, in particolare sui temi più importanti della giustizia. Tra questi c’è sicuramente la pena di morte, ancora praticata in trentasette stati su cinquanta e accolta favorevolmente da Donald Trump, e la detenzione. Gli Stati Uniti rappresentano infatti il 25% della popolazione carceraria nel mondo, con più di due milioni di detenuti, che in molti casi, soprattutto se immigrati, sono reclusi in carceri private gestite da aziende che ricevono appalti dalle autorità governative.
Il fenomeno della carcerazione di massa ha origini lontane e risale alle politiche degli anni Ottanta: l’allora Presidente Ronald Raegan, nel contesto della cosiddetta guerra alla droga, firmò l’Anti-Drug Abuse Act con il quale inasprì le pene per crimini legati alle sostanze stupefacenti e provocò un inaspettato aumento della popolazione detenuta, per la maggior parte afroamericana. Lo stesso accadde negli anni Novanta, sotto la presidenza democratica di Bill Clinton, che emanò il Violent Crime Control and Law Enforcement Act. La risposta all’improvviso sovraffollamento fu quindi la privatizzazione carceraria, sia di strutture precedentemente gestite dagli stati per controllare l’aumento dei costi sia per la costruzione e l’organizzazione di nuove strutture, oltre che per la somministrazione di servizi, anche medici, al loro interno.
La prima azienda a ottenere un contratto per la gestione di un penitenziario fu la CoreCivic, nel 1983, seguita poi da Geo Group. Oggi sono le due principali società che controllano le carceri private e che pongono numerosi problemi soprattutto per quanto riguarda il monitoraggio delle condizioni di detenzione e il rispetto dei diritti dei detenuti. L’unica organizzazione indipendente che ha la possibilità di visitare le carceri e di instaurare eventuali contenziosi nel caso di violazioni dei diritti alla salute, sicurezza e dignità, è soltanto la ACRO (American Civil Liberties Union), attraverso un apposito progetto dedicato alle prigioni. Si tratta di ben poca cosa se si pensa alla totale assenza di un meccanismo di monitoraggio che riguardi i luoghi di privazione della libertà, soprattutto se autonomi, e quindi non sottoposti alle regole cui invece sottostanno i soggetti pubblici.
Secondo gli studi effettuati, dal 1999 al 2015 il numero delle persone detenute nelle carceri private degli Stati Uniti è passato da 69mila a più di 126mila. Trattandosi di prigioni a scopo di lucro l’interesse sta nel tagliare i costi, abbassando la qualità dei servizi somministrati, anche di quelli riguardanti la salute. Il paragone coniato dal New York Times in un editoriale del 2017 calza a pennello: il mercato delle prigioni è un parassita che si nutre dell’incarcerazione di massa e, aggiungiamo noi, non deve la sua fortuna all’andamento dei mercati o dell’economia ma soprattutto agli eventuali cambiamenti legislativi o esecutivi. Basti pensare che quando nel 2016 la viceprocuratrice generale dell’amministrazione Obama Sally Yetes presentò un memorandum al Dipartimento di Giustizia con il quale chiedeva di non rinnovare i contratti con i gestori delle carceri private, per ridurre questo modello, le azioni delle compagnie carcerarie crollarono di oltre il 35%. Ciò spiega allo stesso modo il motivo per cui le azioni di CoreCivic e Geo Group sono aumentate rispettivamente del 43% e del 21% il giorno dopo l’elezione di Trump, nel finanziamento della cui campagna elettorale hanno speso più di 5 milioni di dollari.
Ciò ci mette di fronte a una realtà ineluttabile: l’eventuale conferma del Tycoon rafforzerebbe non solo il mercato delle prigioni private, ma probabilmente anche gli abusi che si registrano dietro le sbarre. L’America non ha mai aderito alla Convenzione contro la tortura e il Presidente americano ha in più occasioni ammesso che la considera un metodo efficace per combattere il terrorismo. Allo stesso tempo, la Corte Suprema, così composta, si mostra sempre più ostile nei confronti dell’accoglimento di reclami dei detenuti per violazioni dei loro diritti poiché manca la sensibilità e l’interesse nell’occuparsi di questi temi. Il timore è che con Biden non possa andare molto meglio. L’America si avvicina sempre di più a un baratro giustizialista senza uscita.