Vincenzo Gemito (Napoli, 16 luglio 1852 – Napoli, 1° marzo 1929) è stato forse tra i maggiori artisti e scultori napoletani del tardo Ottocento. Soprannominato O’ scultore pazzo, rientra nella categoria di figure artistiche più tormentate e discusse del tempo, esponente del Verismo ottocentesco partenopeo. Un uomo dalle innumerevoli sfumature che è riuscito a portare i suoi genio e sregolatezza anche oltralpe, motivo per cui il Museo e Real Bosco di Capodimonte ospiterà, fino al prossimo 15 novembre, la mostra Gemito: dalla scultura al disegno. Si tratta di un grandioso progetto voluto da Sylvain Bellenger, direttore del museo, e da Christophe Leribault, direttore del Petit Palais di Parigi, dove si è tenuta invece, dal 15 ottobre 2019 al 26 gennaio 2020, la prima esposizione, intitolata Gemito. Le sculpteur de l’âme napolitaine.
L’incredibile peculiarità della mostra sta nell’aver strutturato un percorso al cui interno sono presenti non solo le opere scultoree di Gemito, ma anche la grande gamma di disegni prodotti durante l’intero arco della sua vita (molti nella collezione Minozzi-Cosenza, oggi a Capodimonte). Questo perché Gemito è stato, allo stesso modo, eccellente scultore e disegnatore, associando due arti che rendono perciò la sua produzione artistica eclettica e unica nel suo genere.
La smisurata capacità di cogliere l’anima dei ritratti, l’adesione al Vero, l’insofferenza ai canoni accademici: questo era Vincenzo Gemito, trovatello sulla ruota della Pia Casa dell’Annunziata, cresciuto come scugnizzo per i vicoli della città. Quando entrò come garzone nella bottega dello scultore Emanuele Caggiano e in seguito di Stanislao Lista, subito emerse il suo animo assennato, quel desidero di accostarsi a una realtà circostante sempre più fascinosa. Produsse i suoi primi disegni, modellò la creta e la cera, acuto indagatore di soggetti popolari come scugnizzi, zingare o acrobati del circo. «Sì – disse Lista – Quel giovanotto avrebbe fatto l’arte… Ma attraverso quali pene, attraverso quali dolori arrecati a sé stesso dal suo medesimo fervore!». Questo perché Gemito, come la maggioranza dei grandi artisti, non aveva un carattere affatto facile.
Esagitato e imprevedibile, litigava furiosamente con quasi tutti i suoi compagni di lavoro e di percorso. La fama giunse nel 1868, quando partecipò all’esposizione della Società Promotrice di Napoli con la scultura Il giocatore di carte e in seguito proseguì con una costante produzione di testine in creta di fanciulli napoletani. Ciò che colpiva nei suoi lavori scultorei era la capacità di rendere un intenso chiaroscuro atto a mostrare la psicologia dei personaggi, qualcosa che non si stancava mai di indagare sapientemente anche in tutti i suoi disegni. Tra le opere più note ricordiamo il Pescatore, soggetto poi rielaborato nelle versioni de L’acquaiolo e la Sorgente.
Il 1877 fu l’anno di svolta e Gemito si recò a Parigi, dove ebbe modo di osservare l’Impressionismo e la scultura di Auguste Rodin. Espose quindi al Salon e all’Esposizione Universale, ottenendo grande plauso e persino dei premi. Tuttavia, qualcosa nel suo animo e nella sua psiche cominciava a corrodersi: erano i primi segnali di un disturbo mentale che sarebbe sfociato poi in follia. La perdita dell’amata compagna e un paio di complicate commissioni (la colossale statua di Carlo V e un Trionfo da tavolo d’argento) che lo portarono all’ossessione furono l’ultima goccia. Gemito si ritirò in una sorta di esilio volontario per oltre vent’anni, aiutato dagli amici Achille Minozzi e Salvatore Di Giacomo, che mai lo abbandonarono. Nella senilità, lo scultore si ristabilì relativamente e tornò a disegnare, prima di morire nel 1929, all’età di settantasette anni.
Grazie ai curatori Jean-Loup Champion, Maria Tamajo Contarini e Carmine Romano, la mostra ospiterà 150 lavori tra sculture, dipinti e disegni. Spiccano, ad esempio, celebri opere quali il Pescatore Napoletano, la Testa di fanciulla, il Malatiello, l’Acquaiolo, oppure disegni come la Zingara. Tutte le opere sono esposte cronologicamente all’interno di nove sezioni, le quali scandiscono le tappe della vita dell’artista e di uno stile sempre in frenetico cambiamento, animato dalla voglia di scoprire, di superarsi, di osare, trascendendo dalle mode del momento. Partendo dalla sezione I, un interessante confronto tra l’iconografia francese del pescatore – precisamente dello scultore Antonin Moine – e quella di Gemito. Seguono gli scugnizzi napoletani nella sezione II, le teste in terracotta di bambini, tra i soggetti prediletti dello scultore. La sezione III ospita i busti di artisti – il più noto, quello del compositore Giuseppe Verdi, nel 1873 –, mentre la sezione IV si concentra sul suo viaggio a Parigi del 1877, i Salon e l’Esposizione Universale, dove le sue opere fecero tanto discutere per estremo realismo e “bruttezza”.
Un particolare omaggio viene fatto a Mathilde Duffaud, nella sezione V, modella francese che ritrasse innumerevoli volte e che gli spezzò il cuore, morendo prematuramente. Nella sezione VI si fa riferimento in particolare al ritorno a Napoli a seguito della scomparsa della Duffaud e alla grave crisi di nervi che lo portò letteralmente a perdere il senno. La sezione VII è dedicata ad Anna Cutolo, detta Nannina, l’altro grande amore di Gemito. La donna, protagonista di innumerevoli opere, divenne sua moglie e dal matrimonio nacque una figlia, Peppinella. Anche Anna, purtroppo, se ne andò troppo presto a causa di una malattia, come testimoniano moltissimi disegni. Disegni, bozzetti e studi esposti nella sezione VIII, mentre la IX e ultima sezione mostra il suo ritorno all’antico, periodo della vita dell’artista in cui operò in sintonia con i gusti dell’Art Nouveau e dell’arte ellenistica.
Un’opportunità da non perdere assolutamente, dunque, per riscoprire un artista fondamentale nello sviluppo della scultura italiana della seconda metà dell’Ottocento. Un artista in lotta costante contro i suoi tormenti interiori ma che seppe fare una rivoluzione, in cui i disegni possedevano la forza plastica della sculture e le sculture producevano gli effetti di luce della pittura. In cui, finalmente, il canone di bellezza accademico si scontrava con un altro tipo di bellezza: quella della vita reale.