Verrà il tempo del ricordo, verrà il tempo della lotta. Ora è solo il tempo del dolore. Ora è solo il tempo di capire come lasciarlo andare. Ali Oraney aveva 64 anni, il COVID se l’è portato via in un giorno di pioggia di fine settembre. Eppure, dicono, a Napoli non piove mai, a Napoli non piove mai come oggi.
È un dolore enorme quello che, tra vento e lacrime celesti, avvolge la città in questo assurdo venerdì. Ali Oraney è morto e niente di ciò che in vita ha toccato e amato sarà più la stessa cosa, nemmeno il centro storico, quello che una bomba d’acqua ha squarciato appena poche ore fa, quando il sorriso di Alì stava splendendo, forse, per l’ultima volta. In quelle strade Oraney aveva la sua bottega, luogo di incontro e di cultura, di consigli e militanza, di abbracci mai negati e di tè, di veri tè palestinesi: caldi, buoni, sinceri. Come lui. Lo ricordano così i tanti che, affranti, stanno affollando le proprie bacheche social per dargli un ultimo saluto, quello che le misure anti-contagio hanno negato a chiunque avrebbe voluto rivederlo e, invece, deve rifarsi alla memoria di ciò che è stato e non sarà più.
Era sopravvissuto a Israele, Ali, alla furia violenta di un ospite senza invito, di quell’invasore che, ancora oggi, ruba vita e speranza, nella finta indignazione di chi, sottobanco, offre complicità. Gli avevano strappato via tutto, ma non conosceva rabbia. Conosceva il riscatto, la libertà, il diritto di lottare, l’importanza dell’amore. E sapeva insegnarli agli altri, sapeva donarli e donarsi, come solo chi non ha niente sa fare. Come solo chi ama può fare.
Oraney aveva lasciato la Palestina ormai quarant’anni fa, ma non era un esule, era cittadino del mondo. Napoli era stata la sua scelta o, forse, era stata Napoli a scegliere lui. Un connubio naturale, persino scontato per chi cerca accoglienza e per una città che non può non accogliere. Da lì aveva combattuto per la sua terra, per una casa che aveva portato con sé, negli occhi che non smettevano mai di sorridere, che di Palestina e per la Palestina vivevano e non smetteranno mai di vivere.
Era sempre in prima fila, Ali, in piazza per i diritti di tutti, in negozio per il profumo delle origini, a Genova per un mondo che non doveva cambiare come ha fatto. Per l’Italia, però, non era abbastanza, quarant’anni di impegno e di affetti non contavano niente: la cittadinanza non gli è stata mai riconosciuta. Voleva impartire uguaglianza, Ali, mica tirava calci a un pallone. Per lo Stato non era nessuno, per i palestinesi era un faro. Per chiunque avesse la fortuna di incontrarlo, un punto di riferimento, una tappa obbligata, un compagno affidabile e sincero. Un resistente.
Ed è questo che sotto la pioggia battente si legge ancora: Ali resisti. Lo striscione, esposto all’ingresso dell’ospedale Cotugno qualche giorno fa, resterà lì a lungo. Il coraggio di rimuoverlo mancherà a tutti, a tutti quelli che lo hanno amato e, ora, non sanno farsene una ragione. Forse, Oraney è tornato a casa, forse, finalmente, è tornato ad abitare le sue strade, i suoi sogni, a quel tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di Ali, quando i giorni erano scanditi da sole, olive e frontiere aperte. Quando la guerra era un’eco lontana e la Palestina libera di essere.
Mancherà Oraney Ali, mancherà a Napoli, alla Palestina. Mancherà alla libertà. E mancheranno i suoi tè, veri tè palestinesi: caldi, buoni, sinceri. Come lui.
*Fotografia di Ferdinando Kaiser