Non sappiamo quanto le imminenti elezioni saranno decisive per le sorti del governo o come due partiti avversari in molti Comuni e Regioni possano stare allo stesso tavolo a Roma, tantomeno sappiamo per quanto ancora Conte avrà la pazienza di farsi garante del patto che li unisce. Siamo consapevoli, però, che i principali soci di maggioranza, PD e 5 Stelle, si siano uniti tardi e male in una sola Regione, la Liguria, dove hanno trovato un’intesa al penultimo momento e, anziché puntare su quell’esperienza, sembra quasi che stiano tentando di nasconderla. Pensiamo, poi, che in Puglia e nelle Marche i grillini avrebbero potuto appoggiare i rispettivi candidati dem – naturalmente facendo valere le loro posizioni – e che dall’altra parte sia inaccettabile pensare che Zingaretti facesse appelli all’unità, avendo già scelto gli aspiranti da tempo e, soprattutto, chiedendo di sostenere De Luca in Campania, che, come al solito, gioca in solitudine anche se sotto la bandiera di un partito che non riesce a dirgli di no.
Questo è il quadro clinico che si presenta a due settimane dalle elezioni e che, per quante riflessioni si possano avviare, per quanti sforzi si possano fare e per quanti bocconi amari si possano mandare giù, porta inesorabilmente molti di quelli che sostengono questa maggioranza a chiedersi: perché mai dovremmo dar loro il nostro voto? Un quesito comprensibile che sorge poiché, nonostante la memoria da pesce rosso che contraddistingue molti di noi e che ci fa dimenticare chi da una tornata elettorale all’altra dice tutto e il contrario di tutto, gli elettori di centrosinistra in genere non dimenticano. Mentre, infatti, gran parte di coloro che votano a destra tende ad accettare tutto, inerte di fronte a chi nell’arco di dieci anni è passato da Forza Italia alla Lega e poi a Fratelli d’Italia – clamoroso l’esempio di Raffaele Fitto –, chi è di sinistra di solito ha buona memoria di cos’è successo e più volte preferisce dare il voto a piccole realtà.
Anche se adesso il PD sembra avere una nuova verginità, non può passare di mente che è stato il partito che ha guidato il Paese dal 2013 al 2018, traghettato per quattro di questi anni da Matteo Renzi con i dirigenti dem che – eccezion fatta per un’esigua minoranza – si distinguevano tra chi appoggiava incondizionatamente il senatore di Rignano sull’Arno e chi, pur non condividendo del tutto la sua linea, lo applaudiva restando silente di fronte al peggiore leader che la sinistra – suo malgrado – abbia mai avuto.
Non si può certo dire, però, che il nuovo corso di via del Nazareno sia completamente uguale a quello di qualche anno fa: la batosta del 4 marzo 2018 ha indubbiamente fatto bene a un partito che con la sinistra non c’entrava quasi più nulla e che era diventato la sede di un mucchio di finti giovani arroganti (Renzi, Boschi, Lotti, ad esempio) il cui unico risultato raggiunto è stato quello di attirare l’odio politico del popolo (si pensi al caso Etruria. Zingaretti, invece, ha cercato sin dal primo momento di puntare su alcuni temi storici del centrosinistra, quali l’ambiente o il lavoro, e sino a ora gli è bastato non mostrarsi come il suo predecessore. O, meglio, gli è bastato non mostrarsi e basta.
Tuttavia, questa strategia che punta a mimetizzarsi ha ora bisogno di una vera discontinuità e il Governatore del Lazio non può più cullarsi sul fatto che anche chi non vorrebbe dare la propria preferenza al suo partito finisce con il votarlo pur di non lasciare Comuni, Regioni e governo a Salvini. Perché, diciamocelo, il punto è essenzialmente questo: chi detesta veramente le politiche aggressive, vili e xenofobe del capo della Lega – e allo stesso momento sa che astenersi vuol dire comunque fargli un regalo – alla fine si trova spesso a votare per PD o 5 Stelle perché, a oggi, sono gli unici in grado di incanalare una quantità di voti piuttosto ampia da fronteggiare l’ex Ministro dell’Interno.
In fin dei conti, seppur ingiusto, si tratta dell’unico strumento per evitare che la rossa Toscana venga amministrata dalla Lega della Ceccardi o per impedire a Fitto di tornare a mal governare la Puglia dopo quindici anni. Mettere la propria x sui rivali di Salvini sembra dunque come ricongiungersi con il partner da cui ci si è separati per un lungo periodo: si torna insieme ma comunque con diffidenza, ci si chiede se ne valga la pena, soprattutto ci si chiede perché farlo.
Lo sforzo di chi il 20 e il 21 settembre voterà controvoglia per i partiti di maggioranza, quindi, dovrà necessariamente essere valorizzato da questi, costretti finalmente a smettere di riempirsi la bocca con la parola discontinuità e a renderla concreta. Potrebbero partire, ad esempio, dall’abolizione dei Decreti Sicurezza per i quali tutti hanno le loro colpe: i 5 Stelle per averli approvati e il PD per aver dato inizio, nel 2017, a una linea dura e insicura con il Decreto Minniti. Quantomeno per dare un buon motivo, ai cittadini che lo faranno, di non pentirsi di averli votati.