I prossimi 20 e 21 settembre i cittadini italiani saranno chiamati alle urne per esprimere il proprio voto sul referendum riguardante la riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari. Se la riforma ottenesse il consenso popolare, i deputati passerebbero da 630 a 400, i senatori da 325 a 200, con una riduzione di oltre un terzo sul numero complessivo di parlamentari e con la contestuale diminuzione dei rappresentanti eletti dagli italiani all’estero. La riforma è stata approvata per la prima volta – con il voto favorevole di pressoché tutti i partiti – nell’ottobre 2019 ma non è entrata in vigore nel gennaio di quest’anno come previsto perché 71 senatori hanno richiesto lo svolgimento di un referendum popolare, inizialmente fissato per il 29 marzo e poi slittato a causa dell’epidemia da coronavirus diffusasi nel nostro Paese. Si è così deciso di svolgerlo contestualmente alle altre elezioni – non nazionali – che si terranno in vari territori nelle stesse date.
Lo spot informativo diffuso dal servizio pubblico radiotelevisivo parla di referendum popolare confermativo e la stessa definizione è utilizzata nel decreto legge di indizione, tuttavia di tale attributo non c’è alcuna traccia nella Costituzione, dove esso assume invece natura oppositiva: può infatti essere richiesto, dopo l’approvazione di una legge di riforma costituzionale, da un quinto dei membri di ciascuna Camera – come avvenuto in questo caso – oppure da cinque regioni o 500mila elettori, che chiedono che siano i cittadini ad assumere la decisione definitiva. Il referendum, inoltre, non è qualificato in alcun modo nella legge 352 del 1970 (che disciplina il referendum costituzionale) né dal testo unico sulla promulgazione e pubblicazione degli atti normativi. La prima volta che fu utilizzato suddetto aggettivo si ebbe in occasione della riforma costituzionale del Titolo V, nel 2001, poiché in quel caso le stesse forze politiche che l’avevano proposta intesero rafforzare la riforma con il consenso popolare. Successivamente, la formula – senza alcun distinguo – fu riutilizzata nei decreti di indizione dei referendum successivi – voluti dagli esecutivi guidati rispettivamente da Silvio Berlusconi e Matteo Renzi nel 2006 e nel 2016 – fino ad arrivare ai decreti del 28 gennaio e del 17 luglio 2020.
Per quanto possa sembrare ininfluente, in realtà l’uso del termine da parte governativa orienta gli elettori e fa apparire la riforma come necessaria e già decisa. Come confermato da recenti ricerche, i cittadini nutrono uno scarso interesse nei confronti del referendum – per cui, ricordiamo, non occorre il raggiungimento di alcun quorum – e la maggior parte di essi voterà sì ma senza saper argomentare la propria scelta, spesso basata sull’assorbimento passivo di numerosi luoghi comuni. Ma andiamo con ordine.
Il primo argomento utilizzato dai sostenitori del sì è quello del risparmio sulla spesa pubblica, pubblicizzando una fasulla equazione per cui il taglio dei parlamentari corrisponde a un taglio delle spese per i contribuenti. Il MoVimento 5 Stelle parla di un miliardo per gli italiani, ma si tratta di una cifra fortemente esagerata poiché essa presuppone un risparmio di dieci anni per una somma annua di 100 milioni. In realtà, in base agli ultimi bilanci di Camera e Senato, le spese tra stipendi e rimborsi per i senatori ammontano a 79.386 milioni all’anno, per i deputati a 144.85. Ciò significa che 230 deputati e 115 senatori in meno comporterebbero un risparmio rispettivamente di 52.9 e 28.53 milioni, al lordo delle tasse di circa 16 milioni. Lo stesso Osservatorio sui conti pubblici italiani parla di un risparmio annuo di 57 milioni, corrispondente allo 0.007% della spesa pubblica che per ogni cittadino significa il costo di una tazzina di caffè all’anno.
Ma se anche per qualcuno questi risparmi fossero rilevanti, non c’è prezzo per la democrazia e i suoi strumenti istituzionali basilari: la riforma comporterebbe, infatti, uno stravolgimento del nostro attuale assetto costituzionale e un taglio netto della rappresentanza. Ciò significa che un parlamentare dovrebbe rappresentare una fetta molto più grande di cittadini, con forti sperequazioni tra un territorio e un altro. Basti pensare, ad esempio, che l’Umbria e la Basilicata passerebbero da 7 a 3 senatori con una diminuzione del 57.1%, di gran lunga maggiore rispetto alla media nazionale del 36.5%. Allo stesso modo, il Trentino Alto Adige perderebbe – grazie alle province autonome a cui è attribuito un numero pari di membri del Senato – appena un senatore, con una diminuzione del 14.3%. Quella conseguente alla riforma sarebbe così un’Italia fortemente diseguale, in cui si rivelerebbe stravolto il rapporto tra abitanti e parlamentari, rimasto pressoché invariato fin dal 1963. Prima di allora, infatti, i deputati e i senatori non erano definiti in maniera fissa, bensì erano rispettivamente 1 ogni 80mila e 200mila abitanti. Il rapporto è più o meno lo stesso anche con i numeri fissi previsti oggi: 1 deputato ogni 96mila abitanti e 1 senatore ogni 192mila. Con la riforma, invece, l’Italia piomberebbe all’ultimo posto per rappresentatività tra i paesi dell’Unione Europea.
Lo squilibrio conseguente all’eventuale vittoria del sì è inoltre strettamente collegato alla mancanza di una nuova legge elettorale – condizione che, in passato, il PD aveva posto per l’entrata in vigore della riforma – che al momento risulta fortemente necessaria. Al momento la soglia di sbarramento all’esame della Camera è fissata al 5%, percentuale che di per sé suscita qualche perplessità, ma che rischia di divenire ancora più iniqua con un numero di eletti per collegio tanto piccolo: infatti alla soglia di sbarramento “legale”, si affiancherebbe quella “naturale”, che in alcune regioni – come la Liguria, in cui si eleggerebbero solo 5 senatori – potrebbe essere anche più del doppio. Anche se con una riforma costituzionale si ottenesse la sostituzione della base regionale con una circoscrizionale per l’elezione dei senatori, così com’è per la Camera, il problema si porrebbe comunque per i piccoli partiti che sarebbero tagliati fuori da qualunque collegio.
Altro argomento forte dei fautori del sì è la maggiore efficacia e speditezza che il Parlamento raggiungerebbe, ma in realtà quella attuale è una fase storica in cui l’attività parlamentare è fortemente piegata ai ritmi del governo: questioni di fiducia e decreti legge da esaminare sono all’ordine del giorno e i lavori non sarebbero per nulla facilitati dal taglio. Per ottenere almeno l’efficienza attuale, con un numero minore di parlamentari, bisognerebbe implementare lo staff e il resto del personale, con un aumento delle spese che negherebbe di fatto il primo argomento del risparmio utilizzato.
Per chi ritiene che si tratti di una riforma già proposta da anni e mai realizzata, è bene ricordare che in passato non si è mai trattato di un taglio lineare come quello attualmente previsto, senza alcun intervento sull’impianto istituzionale né sul bicameralismo perfetto, in pieno contrasto con lo spirito della Carta Costituzionale nata dalla Resistenza. Si tratta, inoltre, di una riforma incompleta poiché nel disegno di legge non sono stati in alcun modo toccati i regolamenti parlamentari, che prevedono delle soglie, pensate soprattutto a garanzia delle minoranze – per le quali la vita diventerebbe sempre più difficile – e che rimarrebbero inalterate anche con i nuovi numeri dei parlamentari, fino a nuova modifica.
Una riforma superficiale, ma votata così velocemente da far venire seri dubbi sugli intenti dei suoi promotori: tra la prima e la seconda lettura e la deliberazione sono passati appena otto mesi, mai un tempo così breve se non in occasione dell’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, di cui molti oggi sembrano essersi pentiti. Una riforma che necessitava probabilmente di una maggiore meditazione ma che alle condizioni attuali sta palesando tutta la sua natura propagandistica e il suo intento punitivo, come sostenuto anche dai cinque promotori del Documento per il no, firmato da 183 autorevoli costituzionalisti che hanno spiegato dettagliatamente le ragioni tecniche per cui il cui taglio comporterebbe solo un ulteriore malfunzionamento all’interno dell’apparato statale. La volontà è quella di punire i parlamentari, considerati esponenti di una casta parassitaria da combattere con ogni mezzo, manifestando così una diffusa confusione tra il problema della qualità dei rappresentati con il ruolo stesso dell’istituzione rappresentativa.
In base al rapporto dell’ufficio studi della Camera, il numero dei nostri parlamentari è infatti omologo a quello degli altri paesi europei e tutto ciò che si otterrebbe con l’entrata in vigore della riforma sarebbe un maggiore accentramento dei poteri in capo all’esecutivo e uno svilimento gravissimo del ruolo del Parlamento, così congegnato proprio per rappresentare al meglio un territorio articolato e complesso come quello italiano. Esso è infatti la sola sede della rappresentatività politica nazionale, che sarebbe così ridotta senza trovare nessun’altra espressione. Un tale taglio lineare e propagandistico non porterebbe a nulla di buono poiché, come avrebbe detto Rodotà, non si tratta affatto di una manutenzione intelligente.