Che sia l’economia a muovere il mondo è una consapevolezza acquisita da tempo, anche da parte dei pochi idealisti superstiti che speravano in qualcosa di più del sogno capitalistico. Ma se sembra che sia il denaro l’asse intorno al quale ruota la Terra, l’economia è invece mossa, a sua volta, principalmente da una cosa: il petrolio. Non si tratta solo del potere finanziario e dell’influenza politica che le compagnia petrolifere hanno, ma di quanto l’oro nero rappresenti un punto imprescindibile dei programmi dei leader mondiali. È il caso di Donald Trump, che ha appena approvato la trivellazione della più grande area protetta dell’Alaska.
L’Arctic National Wildfire Refuge è un’area naturale di circa 78mila chilometri quadrati. Da trent’anni, ormai, la zona è protetta e costituisce l’ecosistema più adatto alla conservazione di alcune specie artiche considerate in via d’estinzione. Secondo l’amministrazione Trump, però, ospiterebbe un giacimento di petrolio sufficiente a riempire miliardi di barili, garantire occupazione per anni e far girare l’economia. L’area destinata alla trivellazioni è stata divisa in due e probabilmente saranno messi all’asta i diritti per l’estrazione di gas e petrolio.
Secondo le dichiarazioni, le motivazioni che hanno spinto il Presidente USA hanno a che fare con i posti di lavoro che si verrebbero a creare, soprattutto per dare una scossa al sistema economico dello Stato fortemente arretrato. In effetti, la mossa del Tycoon non sorprende affatto, basti ricordare che ha basato la sua compagnia elettorale e il suo mandato su un argomento specifico: l’economia. Anzi, la sua strategia comunicativa è sempre stata quella di puntare sui problemi percepiti come maggiormente incombenti dall’elettorato, e il lavoro è indiscutibilmente al primo posto insieme alla questione immigrazione. Non è un caso, dunque, che le scelte presidenziali abbiano sempre puntato esclusivamente al profitto, ignorandone le conseguenze.
La risposta degli ambientalisti non ha tardato, con la promessa di lottare in tribunale per arrestare il provvedimento. Intraprendere i lavori di trivellazione, infatti, comporterebbe danni sotto numerosi punti di vista. Quelli locali saranno certamente i più evidenti e immediati, a partire dall’enorme danno ecologico che una perdita potrebbe causare. Non è certamente una novità quanto sia alto il rischio di accidentale dispersione quando si estrae o si trasporta combustibile fossile. L’incidente degli ultimi giorni che coinvolge l’Oceano Indiano ne è la prova, l’ultimo esempio dei disastri petroliferi che da anni minacciano il delicato ecosistema marino.
In più, anche se si riuscisse a evitare le perdite degli impianti, il danno alla fauna sarebbe comunque inevitabile. L’Arctic National Wildfire Refuge finora è stata una zona protetta priva della presenza umana, abitata soltanto da un numero esiguo di indigeni. Popolandola, invece, cesserebbe di essere un luogo considerato sicuro dagli animali, la cui vita dipende proprio dalle pochissime zone protette rimaste sul pianeta. Essa ospita, infatti, una parte degli ultimi esemplari di orsi polari sopravvissuti, specie che rischia l’estinzione entro ottant’anni a causa dello scioglimento dei ghiacciai. In più, la zona fa parte della rotta migratoria dei caribù, le renne dell’Alaska, che vi si stanziano proprio nel periodo di riproduzione. Se l’area venisse occupata dagli uomini, gli animali non la considererebbero più sicura e la loro riproduzione, dunque la sopravvivenza della specie, sarebbe messa in grave pericolo.
Ai danni locali, poi, si aggiungono inevitabilmente quelli planetari. In un periodo in cui la riduzione delle emissioni di CO2 e la rimozione – per quanto possibile – dei combustibili fossili dai processi produttivi sono in primo piano tra i provvedimenti per arrestare il riscaldamento globale, offrire un enorme e inesplorato giacimento di petrolio alla trivellazione non contribuirebbe di certo a rendere più incisiva l’azione di abbassamento delle temperature.
Le conseguenze potenziali sono dunque inestimabili e il timore che il progetto di Trump vada in porto dovrebbe coinvolgere l’intera popolazione mondiale. D’altronde, la sua politica strettamente negazionista riguardo il cambiamento climatico ha già fatto parecchi danni, a partire dalla costruzione di pericolosi oleodotti, dallo smantellamento delle norme fondamentali e dalla decisione di uscire dagli accordi di Parigi. Ma se, a detta sua, il global warming non esiste o, comunque, non dipende dall’attività umana, sembra normale prendere certe decisioni basate più che altro sul profitto. Da imprenditore quale è sempre stato, per Trump è l’economia che conta e se la riduzione delle emissioni, l’attenzione all’ambiente e gli accorgimenti presi per inquinare il meno possibile abbassano i profitti, evidentemente non vale la pena sostenerli.