Missione compiuta: Giuseppe Conte ha vinto la sua battaglia con l’Europa, ha portato a casa – dopo un durissimo negoziato – il massimo risultato possibile per quanto riguarda l’accesso ai fondi per la ripartenza dopo l’emergenza coronavirus, il tanto discusso Recovery Fund. L’Italia potrà così usufruire di 209 miliardi, di cui 81.4 a fondo perduto e 127.4, invece, sotto forma di prestito, ben il 28% dell’intera quota del debito che gli Stati dell’Unione Europea condivideranno, in un principio di solidarietà mai visto prima.
Si tratta davvero di una vittoria? Non era possibile risultato migliore? A nostro avviso – lo abbiamo già scritto più volte su queste pagine – il ricorso al Recovery Fund non risolve i problemi del Paese e non permette di affrontarli con l’urgenza che meritano. I soldi saranno, infatti, disponibili soltanto dal secondo trimestre del 2021 e –cosa non da poco – andranno restituiti con clausole non così dissimili dal MES, dunque con una probabilissima stretta sulle tasse che ogni cittadino pagherà all’erario negli anni a venire. La soluzione ideale – lo ribadiamo – sarebbe stato un intervento senza condizioni della BCE a favore delle nazioni più colpite dalla pandemia, un’emissione di denaro volta alla ricostruzione dell’economia dei singoli Stati senza alcun peso per risparmiatori e lavoratori, insomma le vere vittime della crisi.
Utopia? Forse, soprattutto in un mondo sempre più governato dalle dinamiche del mercato, in una comunità – quella europea – in cui gli istituti finanziari vestono i panni dei padroni. Preso atto di quanto appena descritto, dunque, il risultato ottenuto dal Premier Conte, in un tira e molla con la componente sovranista del tavolo delle trattative, può considerarsi la migliore soluzione messa a disposizione di Roma, che senza alcun tipo di accordo si sarebbe vista fallita, con tutta la UE pronta a seguirla sul fondo di un mare in tempesta.
Il commissario europeo Paolo Gentiloni l’ha definito il passaggio più rilevante nella storia della Comunità Europea. Certamente un’esagerazione, tuttavia, la forza della dichiarazione rende l’idea del peso che aveva l’esito della contrattazione per l’Italia e per tutti gli Stati comunitari. L’obiettivo non dichiarato, il vero e proprio risultato di questo accordo che prevede la divisione di un debito garantito dalla UE di 750 miliardi di euro, è infatti il colpo inferto alle destre, la risposta alle accuse di un’Europa divisa e divisiva, una dimostrazione di ritrovata coesione e solidarietà, come per i principi su cui la stessa Unione era stata fondata.
Anche Ursula von der Leyen – persuasa dai liberisti capitanati da Macron e Angela Merkel – ha mosso la sfida ai nazionalisti rilanciando l’idea di una UE coesa e inclusiva, insomma un modello in contrasto con l’idea della Brexit, tanto da aver posto agli aderenti al Recovery Fund alcune imprescindibili condizioni. Non saranno ammessi, infatti, tagli a quelli che sono stati e vogliono essere i capisaldi su cui fonderà il nuovo corso della Comunità, dal progetto Erasmus alla ricerca, passando per la difesa, l’immigrazione e il diritto di asilo.
Un’Europa, dunque, aperta e inclusiva, figlia di un’intesa – quella raggiunta a Bruxelles nei giorni scorsi – che prova a convincerci di voler ribaltare la filosofia dell’austerity, puntando sull’emissione di un debito comune che gonfierà il deficit di tutti gli Stati membri, anche di quelli che beneficeranno soltanto marginalmente del RF (che, però hanno ottenuto uno sconto e la possibilità di controllare l’operato di chi – come l’Italia – avrà accesso alla fetta maggiore).
Arrivano i soldi e, di conseguenza, finisce il tempo degli alibi per la politica, con la responsabilità di cambiare profondamente la società, puntando – una volta per tutte e senza scusanti – su lavoro, giovani, opportunità, inclusione, riducendo le distanze sociali e garantendo i diritti di uno Stato che vuole continuare a dirsi democratico. Come indicato da Bruxelles, si dovrà ripartire con un piano per l’occupazione giovanile, con progetti di ripianamento delle differenze salariali, da una sanità degna di questo nome e l’assoluta necessità di promuovere manovre ambientalistiche e di sviluppo tecnologico.
Come fare? Un’idea ce l’abbiamo. Sarà obbligatorio combattere l’evasione e assicurare un’equa distribuzione delle tasse, promettere una lotta feroce al clientelismo che si fionderà sui soldi del Recovery Fund con politica e mafie pronte a cavalcare i propri interessi. Toccherà dare spazio alle nuove generazioni, offrire loro un futuro, perché Erasmus non può più coincidere con una vacanza pagata da mamma e papà in qualche ateneo fuori confine. Va bene saper trattare, ora va dimostrato di saper spendere.
Per Conte – da adesso in avanti – sarà una prova senza possibilità d’appello. Quello che, inspiegabilmente, era apparso come un burattino nelle mani dei pupari Di Maio e Salvini durante la prima parte della legislatura attuale, ha saputo costruire una leadership forte, di carattere, fascino e – in parte – anche di affidamento. Il credito però – la politica moderna insegna – dura il tempo di una nuova propaganda.
Non ci si dovrà illudere, tuttavia, che i soldi messi a disposizione degli Stati membri dal Recovery Fund fungano da lampada di Aladino, con i desideri del padrone di turno pronti a trasformarsi in qualunque realtà. Il prestito – appunto – non è liquidità senza condizioni, il valore della sua genesi è più simbolico che finanziario, un pugno sferrato a Rutte, Orbán, Le Pen, Salvini e chiunque reclama di alzare muri anziché creare ponti di solidarietà.
Su quei ponti, però, è bene che tornino a muoversi le persone, rotte di scambio, di arricchimento culturale e professionale. Se, com’è stato finora, saranno strade erette soltanto per salvare quella che – di fatto – è diventata la banca garante delle multinazionali e delle imprese schiaviste 3.0, allora, ben presto tutto crollerà nuovamente sotto i colpi della propaganda dell’odio. Perché i simboli sono importanti, mai come ora, ma la concretezza delle azioni messe in campo per le persone vale (e può pesare) più di qualsiasi legge di mercato.