Probabilmente è il più sottovalutato e trascurato dei diritti, quello a cui si riservano meno fondi, meno attenzioni e meno incentivi. All’istruzione, infatti, non viene mai dedicata una giusta riflessione e la sua importanza è spesso svilita, sebbene sia alla base della formazione degli individui e faccia parte dei diritti fondamentali della persona globalmente riconosciuti. In cambio, in Italia e non solo, vive continuamente periodi bui e, in seguito all’emergenza coronavirus, sembra in procinto di affrontare la più grave crisi della modernità.
Già in periodo di lockdown abbiamo criticato la scarsa attenzione dedicata ai servizi scolastici e il fallimento della didattica a distanza da cui sono state escluse le fasce per le quali il diritto all’istruzione era già fortemente a rischio. Ma ora i postumi della pandemia rischiano di aggravare maggiormente la situazione.
Il risultato più evidente della crisi sarà il calo degli studenti universitari: l’indebolimento dei redditi delle famiglie, infatti, avrà gravi conseguenze sulle iscrizioni. Secondo il rapporto dell’associazione Svimez sarebbero circa 10mila gli studenti per cui l’anno accademico 2020-2021 è a rischio, di cui oltre i due terzi del totale residenti al Sud. Solo i nuclei familiari meno colpiti dalla precarietà economica, dunque, potranno permettersi l’iscrizione all’università, mentre chi avrà bisogno di cercare lavoro per sostentarsi non avrà la possibilità di investire maggiormente nella formazione e nel futuro. È anche vero, però, che in Italia la quota di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano è la più alta d’Europa e nei prossimi mesi la situazione non potrà che peggiorare.
Se l’istruzione sembra subire enormemente le conseguenze del COVID-19, però, non è certamente frutto del caso. Il mondo della formazione è sempre stato l’ultima ruota del carro nel nostro Paese e alle continue richieste di finanziamento per la ricerca lo Stato ha sempre dato poco peso, tanto quanto ai fondi necessari per una scuola di qualità. A dimostrarlo è il livello medio d’istruzione europeo, relativamente al quale l’Italia occupa uno degli ultimi posti.
Sebbene negli ultimi anni si sia tentato un recupero sul fronte degli abbandoni scolastici e sia aumentata anche la percentuale di diplomati, infatti, i dati restano piuttosto sconfortanti. Il motivo probabilmente risiede nella distorta ma diffusa percezione secondo cui lo studio non sia realmente funzionale all’occupazione. Che questo pessimismo sia strettamente collegato alla mancanza di investimenti nella scuola e nelle università è indubbio, come è ovvio che una più visibile attenzione a un’istruzione di qualità migliorerebbe anche i risultati occupazionali. Ma è anche vero che se i periodi di crisi economica continuano a essere una scusa per non finanziare la scuola, difficilmente la situazione potrà cambiare, soprattutto considerando che la crescita economica dipende inevitabilmente dal livello di formazione.
Secondo le statistiche OCSE, c’è uno stretto legame tra il livello di istruzione di un Paese e il suo welfare, che dipende soprattutto dall’esistenza di un corposo ceto medio ben istruito. E un buon livello di istruzione non risolve solo i problemi economici, ma agisce positivamente anche sulle disuguaglianze, la qualità della vita e la salute. Dunque, i continui tagli riservati a scuola e università probabilmente rappresentano una delle principali cause dei problemi italiani. Inoltre, la pandemia è costata anche una profonda crisi culturale, non solo dovuta all’assenza del turismo, ma anche a un totale abbandono dei cittadini stessi che ha, tra gli altri, messo in crisi il mondo dell’editoria. Si tratta di due elementi – quello culturale e quello educativo – che risultano indissolubilmente legati, perché entrambi funzionali allo sviluppo e alla dignità degli individui: prima l’accesso all’istruzione pone le basi e poi l’interesse culturale amplia menti e possibilità. Ma se una crisi economica mette in ginocchio quei due fattori fondamentali per lo sviluppo, evidentemente, essi non sono considerati prioritari tanto dallo Stato quanto dai cittadini.
Gli scarsi risultati del Bel Paese, però, non sono i soli a preoccupare. Anzi, nel resto del mondo è l’istruzione primaria a essere a rischio. Secondo l’ultimo report di Save the Children, circa 9.7 milioni di bambini rischiano di lasciare per sempre la scuola entro la fine dell’anno proprio a causa della pandemia in corso. Già prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria globale, erano 258 milioni i bambini esclusi dall’ambiente scolastico e il COVID-19 ne allontanerà altri, soprattutto nei Paesi e tra le comunità a basso reddito. Save the Children parla di una vera a propria emergenza educativa le cui vittime sono soprattutto le bambine: per loro l’indice di rischio è molto maggiore rispetto ai maschietti della stessa età e aumenta il rischio dei matrimoni precoci per questioni economiche tanto quanto culturali.
Secondo questi dati, dunque, che l’importanza della formazione fosse già gravemente svilita prima della pandemia era evidente. Non a caso, le Nazioni Unite ne avevano riconosciuto la drammaticità durante la stesura degli obiettivi da raggiungere entro il 2030, tra i quali un’istruzione di qualità per tutti era tra i più importanti. Risulta evidente, almeno a livello teorico, che l’istruzione sia il punto di partenza per migliorare la vita delle persone e per garantire uno stile di vita equo e sostenibile. Purtroppo però non sembra che, nei fatti, essa sia realmente tutelata.