Gracias por tanto, gracias por todo. Un mio caro amico lo ha salutato così e, forse, non avrebbe potuto farlo meglio. È difficile, per me, trovare le parole per dire addio a Carlos Ruiz Zafón, lo scrittore che ha reso sopportabile la mia adolescenza. È scomparso ieri dopo una lunga malattia e non credo di poterlo perdonare. Aveva soltanto 55 anni.
Quando ad andarsene è un personaggio pubblico, è facile trovare ovunque il classico coccodrillo. Basta qualche nota biografica e il pezzo è pronto. Quando a farlo è qualcuno che ha toccato le corde dell’anima, invece, ogni frase sembra inadatta, quasi inopportuna. Zafón, per me, era esattamente questo: qualcuno che, senza saperlo, aveva saputo dare un indirizzo alle tante giornate vuote di un periodo difficile della mia giovane età. Ancora adesso sento di dovergli essere grata.
La notizia della sua scomparsa è arrivata in un venerdì di giugno più simile, nei colori, a un mattino di febbraio, grigio come quelli in cui sfogliavo per la prima volta L’ombra del vento, il suo libro più famoso, quello tradotto in più di 36 lingue per un totale di almeno 18 milioni di copie. Lo aveva reso lo scrittore spagnolo più letto di sempre dopo Miguel de Cervantes. Un mattino grigio come le note che ne permeavano il volume, tra le strade di una Barcellona gotica e nebulosa, segnata dalla guerra civile prima e dal franchismo poi. La casa perfetta per il Cimitero dei Libri Dimenticati. Anche quel giorno, quello che avrebbe consacrato il rapporto tra Daniel Sempere e suo padre, era giugno. Ed era grigio.
[…] Ricordo che quella mattina di giugno mi ero svegliato gridando. Il cuore mi batteva come se volesse aprirsi un varco nel petto e fuggire via. Mio padre, allarmato, era accorso in camera mia e mi aveva preso tra le braccia per calmarmi.
«Non mi ricordo più il viso della mamma» dissi con un filo di voce. Mio padre mi strinse forte. «Non preoccuparti, Daniel. Lo ricorderò io per tutti e due». Ci guardammo nella penombra, cercando parole che non esistevano. Per la prima volta notai che mio padre stava invecchiando e che i suoi occhi tristi erano rivolti al passato. Si alzò in piedi e aprì le tende per far entrare la pallida luce dell’alba.
«Su, Daniel, vestiti. Voglio mostrarti una cosa» disse. «Adesso? Alle cinque del mattino?» «Ci sono cose che si possono vedere solo al buio».
E lui, Zafón, aveva saputo vedere nel mio buio e aprire anche per me le tende su un luogo incantato, pieno di splendore magico e botole scricchiolanti, dove anche le sottotrame avevano sottotrame, così come avrebbe detto Stephen King del primo volume della tetralogia definendolo un romanzo fenomenale.
Ricordo ancora il mattino in cui mio padre mi fece conoscere il Cimitero dei Libri Dimenticati. Erano le prime giornate dell’estate del 1945 e noi passeggiavamo per le strade di una Barcellona prigioniera di un cielo grigiastro e di un sole color rame che inondava di un calore umido la rambla de Santa Mónica.
«Daniel, quello che vedrai oggi non devi raccontarlo a nessuno» disse mio padre. «Neppure al tuo amico Tomás. A nessuno.»
«Neanche alla mamma?» domandai sottovoce.
Mio padre sospirò, offrendomi il sorriso dolente che lo seguiva sempre come un’ombra.
«Ma certo» rispose mesto. «Per lei non abbiamo segreti».
A non avere segreti per Zafón, invece, era Barcellona, anche se non vi abitava più da tempo, cittadino ormai di quella Los Angeles che diceva essere divisa non in nove ma in novemila gironi e altrettanti sottolivelli. Una città intricata ma, forse, non abbastanza da stimolarne la penna, sempre così legata alla Catalogna e a quelle Ramblas che non erano sfondo ma protagoniste di storie e misteri. Di Barcellona, infatti, parlavano Marina, un altro dei suoi testi più apprezzati, e l’intera quadrilogia de Il Cimitero dei Libri Dimenticati, da L’ombra del vento a Il gioco dell’angelo (2008), Il prigioniero del cielo (2012) e Il labirinto degli spiriti (2016), l’ultimo libro pubblicato, una metafora dell’importanza della memoria e della conoscenza e di come possano cambiare le nostre vite. «Siamo sempre a rischio di dimenticare, di vivere esistenze vuote e banali che restano in superficie», diceva. E aveva ragione. Per fortuna, a non essere rimasta in superficie, è stata la sua esistenza, custodita per sempre nelle pagine che ancora sfogliamo.
Ogni libro, ogni volume possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza.
Per Zafón la scrittura era come un’opera di ingegneria, fatta da milioni di piccoli pezzettini, ingranaggi di orologi che lo affascinavano e nei quali sapeva guidarci e farci sentire a casa. Ora che le lancette al suo polso resteranno ferme, non posso che sentirmi abbandonata, cresciuta come Daniel in compagnia di amici immaginari che popolavano pagine consunte, pagine a cui lui aveva dato vita, in qualche modo consapevole che ne avrei avuto bisogno. Perché, se in genere il destino si apposta dietro l’angolo, come un borsaiolo, una prostituta o un venditore di biglietti della lotteria, senza mai fare visite a domicilio, so per certo, che nei panni della professoressa che allora me ne consigliò la lettura, sia stato lui a trovare me.
Sono in tanti, oggi, a piangere la scomparsa di Carlos Ruiz Zafón. Succede quando le parole sanno trasformarsi in universi paralleli e alleggerire il peso delle nostre vite terrene. Se ripenso a quegli anni, a quei giorni grigi scanditi da L’ombra del vento prima e da tutti i libri arrivati dopo, quando l’ansia faceva da ruggine alla mia anima, riesco a ricordare un’immagine che mi è spesso tornata in mente: Michail mi disse che secondo lui la vita concede a ciascuno di noi rari momenti di pura felicità. A volte solo pochi giorni o settimane. A volte anni. Tutto dipende dalla fortuna. Il ricordo di quei momenti non ci abbandona mai e si trasforma in un paese della memoria a cui cerchiamo inutilmente di fare ritorno per il resto della vita. Che è un po’ quello che ho imparato a fare io nel tempo, cercando nuovi autori e nuovi universi, nella speranza di ritrovare il calore del Cimitero dei Libri Dimenticati.
Adesso so che sarà così per sempre.
[…] quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall’oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?»
Il mio sguardo si smarrì nell’immensità di quel luogo, nella sua luce fatata. Annuii e mio padre sorrise.
«E sai qual è la cosa più bella?» Scossi la testa in silenzio. «La tradizione vuole che chi viene qui per la prima volta deve scegliere un libro e adottarlo, impegnandosi a conservarlo per sempre, a mantenerlo vivo. È una grande responsabilità, una promessa» spiegò mio padre. «Oggi tocca a te.» Oggi tocca a noi.
Gracias por tanto, Carlos, gracias por todo.