“Avete fatto Voi quest’orrore, Maestro?”
“No, è opera vostra.”
È il 26 aprile del 1937 e nella piccola città di Guernica, nonostante un clima europeo incredibilmente teso e la guerra civile spagnola in atto, la vita prova a scorrere come ogni altro giorno. Almeno fino a quando, per gioco, per esperimento o per sete di maggior potere, la Legione Condor tedesca e l’Aviazione Legionaria italiana decidono di colpire la quiete cittadina con un inaspettato bombardamento aereo a tappeto. Uno dei primi della storia, uno dei più violenti. A soccombere uomini, donne, anziani e bambini, il cui numero è, ancora oggi, motivo di dibattito.
Pablo Picasso, intanto, è in Francia, impegnato nell’ideazione di un’opera che gli è stata commissionata dal governo per rappresentare la Spagna alla prossima Esposizione Universale di Parigi. Trovare il giusto progetto da realizzare gli costa non poca fatica. Quando, però, dai giornali apprende il terribile crimine commesso contro l’umanità compie una scelta molto forte che lo porterà ad assumere un’importante posizione di condanna e di impegno sociale. Nulla più di quella che sarà una delle opere di maggior spessore del XX secolo e, senza dubbio, di quelli a venire, può raccontare il paese nella sua più realistica accezione. “Davanti a un conflitto che mette in gioco i più alti valori dell’umanità, gli artisti non possono e non devono restare indifferenti”. Il Guernica sta per nascere.
Come preso da una furia emotiva che lo spinge a dipingere, in appena due mesi completa l’immensa tela – oggi custodita al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía di Madrid – con non poco studio e fatica. Le foto scattate dalla sua compagna, Dora Maar, anch’esse conservate nella sala che ospita il quadro, ne sono un’incredibile testimonianza. È lo stesso Picasso a donare il lavoro al proprio paese natio, a condizione che faccia ingresso in patria solo quando sarà stato ristabilito un regime democratico.
La tela, d’impatto come poche, è uno di quei pugni in faccia che nessuno vorrebbe mai ricevere. Grande 782cm x 354cm, costringe l’osservatore, che quasi si smaterializza dinanzi a essa, a prendere coscienza dell’orrore che egli stesso, in quanto essere umano, sarebbe capace di fare. La denuncia, l’accusa e il disprezzo che divorano Picasso aleggiano nell’aria e spaventano, rimproverano, logorano l’anima come sensi di colpa, come peccati da espiare. Il Guernica è il 27 gennaio che non vorremmo dover ricordare, il telegiornale che non riusciamo a guardare. È l’alter ego che tentiamo di nascondere. È chi fingiamo di non essere. Forse è per questo che su chi lo osserva ha un effetto piuttosto disturbante. La felicità, o la cosa più simile a cui possa aspirare qualunque creatura pensante, la pace dello spirito, è ciò che evapora lungo il cammino che porta dal credere al sapere. Il Guernica è la risposta che dà Picasso a un ufficiale tedesco che con arroganza e superbia gli chiede: “Avete fatto Voi quest’orrore, Maestro?”.
Guernica è la capitale religiosa e storica dei paesi baschi spagnoli, nonché luogo di incontro dell’Assemblea di Biscaglia, che si riuniva sotto una quercia, la Gernikako Arbola, simbolo delle tradizionali libertà del popolo basco. Aleppo, “la bigia”, invece, è patrimonio dell’UNESCO e prima capitale culturale del mondo islamico, anche detta “la capitale del Nord” per la sua più che decimata popolazione che supera – ormai probabilmente solo su carta – quella della vera capitale siriana, Damasco. Entrambe al nord dei rispettivi paesi in cui si trovano, a vederle in queste foto quasi non sembrano diverse, forse, non lo sono per davvero. Picasso, con la sua opera senza tempo, ce lo ricorda ogni giorno. E ci accusa. “No, è opera vostra.”
Probabilmente, per questo stesso motivo, la tela rappresenta la realtà in chiave cubista, deformando la scena di guerra che appare, così, difficilmente distinguibile e universale. Attuale. Nulla nell’opera del pittore spagnolo è riconducibile a una specifica epoca storica. Anche il costante riferimento ad altre opere – “I bravi artisti copiano, i grandi artisti rubano” – sembra confermare la nostra tesi. Ogni personaggio, ogni espressione, ogni oggetto sono allusivi oggi come ieri. Persino il nome del quadro potrebbe essere mutato in base al conflitto che si sta vivendo. La guerra, con la sua atrocità, non muta nel tempo, e nemmeno la sofferenza dell’uomo.
Chiunque si trovi dinanzi al maestoso lavoro non può non avvertirne la drammaticità, sottolineata dalla mancanza di colore, che pervade la stanza e ne fa luogo di memoria, memoria di una barbarie senza fine. Sulla sinistra, la madre disperata che stringe il suo bambino potrebbe essere la nostra, l’uomo che urla a destra, rivolgendosi al cielo, nostro padre. Potremmo essere noi, colti nella nostra sicura dimora dall’irruente mondo esterno. Quello rappresentato in Guernica è un ambiente interno, come lasciano intendere il lampadario e la finestra, dunque una normalità e una serenità interrotte dalla ferocia di un conflitto che non ha mai ragione di esistere. L’animale impazzito al centro, che domina l’opera, il cavallo, sembra nitrire disperato. È il popolo spagnolo, nobile e fiero, che soccombe, è la natura. Alla sua sinistra il toro – altro simbolo propriamente ispanico – che, come in una corrida, è vigoria e rivalità. Non mancano, ovviamente, la morte e la miseria, rappresentati dal soldato disteso a terra e dalla lampada sorretta da una donna. E poi le lingue di fuoco, le case bruciate, l’uomo che fugge. Il terrore negli occhi di ciò che resta di quegli uomini e quelle donne e una forza che sembra spingere ogni elemento verso sinistra, come un vento violento. È la guerra che vince quasi su tutto, una spada che la brutalità di una lotta impari ha spezzato, e un fiore che non demorde, come una fenice che rinasce dalle proprie ceneri.
Pablo Picasso ci ricorda, così, che è possibile porre fine all’eterno conflitto dell’essere umano, in costante bilico nella sua ambigua indole. Non si tratta di redenzione o perdono, ma di un monito che superi il suo tempo per divenire eterno e assoluto. Perché di Guernica e di Aleppo ce ne sono state fin troppe.
E, dunque: “Avete fatto Voi quest’orrore, Maestro?”
“No, è opera vostra.”
No, è opera nostra.