È della scorsa settimana la notizia del commissariamento di Uber Italy, la filiale italiana del gruppo americano per la quale è stata disposta l’amministrazione giudiziaria dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano. L’accusa è quella di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro nei confronti dei ciclofattorini impegnati nella consegna del cibo attraverso la piattaforma collegata al gruppo di noleggio auto. La multinazionale si serve infatti di due società di intermediazione che operano nel settore della logistica, tra cui la Flash Road City di Milano, ora indagata.
Formalmente, i rider non lavorano per la multinazionale. Questa, dunque, non dovrebbe interferire in alcun modo nella gestione del personale e nelle turnazioni. Ciò che emerge dall’inchiesta e dalle intercettazioni telefoniche tra il manager della Uber e i rappresentanti della Flash Road City, però, dimostra tutt’altro. Quello che ne viene fuori, infatti, è un clima di paura e terrore: la multinazionale si dimostra consapevole dello stato di indigenza dei rider – perlopiù immigrati – e ne approfitta. Devono stare collegati di sera, quando ci sono più richieste. Se non li paghi e dici loro che devono collegarsi di sera per mangiare, lo faranno, hanno fame: queste le parole di Gloria Bresciani, manager di Uber, al telefono con gli impiegati della Flash Road City.
Gli indici previsti dall’articolo 603 bis del Codice Penale e valutati dal presidente della sezione misure di prevenzione sono lo sfruttamento lavorativo e l’approfittamento dello stato di bisogno. I rider coinvolti, infatti, sono in prevalenza immigrati provenienti da zone del pianeta altamente conflittuali, come Costa D’Avorio, Gambia, Pakistan, Mali, richiedenti asilo che vivono in un forte isolamento sociale, dunque disposti a tutto pur di lavorare, anche in condizioni disumane. Il ricatto più utilizzato è il permesso di soggiorno: senza quel documento a dimostrare la propria regolarità agli occhi della società, qualsiasi speranza di costruire un futuro migliore svanisce.
Come era facile aspettarsi, è subito iniziato il rimpallo di responsabilità tra gli indagati: la multinazionale americana dal canto suo afferma di aver rispettato la legge italiana, definendo riprovevole e inaccettabile quanto emerso dall’inchiesta e condannando qualsiasi forma di caporalato. La società satellite milanese, invece, scopre gli altarini: per Uber i rider sono solo puntini su una mappa da attivare o bloccare a loro piacimento con il solo intento di guadagnare il più possibile. Più volte abbiamo chiesto di aumentare il valore delle consegne ma le tariffe, fissate da Uber, si sono a mano a mano abbassate.
Nessuna delle due dichiarazioni appare comunque convincente stando a quanto gli inquirenti hanno ascoltato attraverso le intercettazioni. Entrambe le parti erano consapevoli delle condizioni di sfruttamento – 3 euro a consegna qualsiasi fosse la distanza percorsa, il giorno o l’ora –, entrambe approfittavano dello stato di bisogno e della paura dei dipendenti: sottrazione delle mance lasciate tramite la piattaforma, minacce, blocco dell’account come punizione per un lavoro non svolto perfettamente, pagamenti non effettuati nonostante le reiterate richieste disperate dei migranti coinvolti. Ciononostante, di fronte all’accusa di caporalato, la società di intermediazione nega di aver costretto i lavoratori con la frusta, ma forse non ha ben presente che lo sfruttamento non è solo questo e che l’antico schiavismo non è scomparso, ha solo assunto una nuova forma molto più subdola e pericolosa.
Molti dei problemi legati ai rider e alle loro tutele sul posto di lavoro derivano dalla mancanza di regolamentazione in materia: la struttura che si frappone tra la multinazionale e i rider serve non solo perché la casa madre risparmi sul costo del lavoro, ma soprattutto per deresponsabilizzarla rispetto ai collaboratori. Inoltre, i rider sono spesso assunti con contratti di collaborazione coordinata e continuativa che, non rientrando nei contratti tipici, rischiano di sfuggire a numerose tutele. Una vittoria in tal senso si è però avuta all’inizio di quest’anno, in seguito alla richiesta di alcuni impiegati in una srl in liquidazione di veder riconosciuta la natura subordinata delle mansioni svolte in qualità di fattorini. La Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto loro le tutele previste per i lavoratori subordinati a partire dal Jobs Act – su cui ci sarebbe comunque molto da ridire – al fine di tutelare prestatori in condizioni di debolezza economica, operanti in una zona “grigia” tra autonomia e subordinazione.
Uber rappresenta un gigante del capitalismo delle piattaforme e della gig economy che ha non pochi sostenitori, i quali ritengono che l’aspetto positivo di questo tipo di attività stia proprio nella libertà con cui il prestatore può gestire il proprio lavoro. Eppure la vicenda denunciata sembra dimostrare esattamente il contrario: al di là delle interferenze della multinazionale nella gestione delle turnazioni e dei ritmi lavorativi, in questo caso la decantata libertà si è trasformata in possibilità facile di sfruttamento. I rider erano infatti costretti a rimanere collegati alla piattaforma molto più del tempo necessario per le consegne, essendo inoltre obbligati a restare nei pressi dei ristoranti per essere più celeri nel caso di nuove ordinazioni, senza però stare troppo vicini e disturbare la clientela, si intende.
Il provvedimento giudiziario in questione è il primo in assoluto che affronta il tema del caporalato digitale, tuttavia tale termine può trarre in inganno per l’ambito ristretto cui le norme sul caporalato sono state confinate, trattandosi nell’ottica comune di regole finalizzate soprattutto a colpire lo sfruttamento delle campagne. Invece, i datori di lavoro senza scrupoli operano indisturbati anche in ambienti urbani e la legge 199 del 2016 – passata alla storia come legge sul caporalato – intende colpire non solo le forme di assoggettamento assoluto del lavoratore di tipo schiavistico, ma anche tutte quelle condotte che si pongono in una zona grigia e che, pur rappresentando forme intermedie di sfruttamento, sono caratterizzate dall’approfittamento di uno stato di bisogno e dalla conseguente accettazione di condizioni lavorative inumane.
Oltretutto, durante il lockdown la situazione per i ciclofattorini è peggiorata: l’emergenza COVID ha infatti comportato l’impossibilità di uscire di casa e dunque l’aumento di richieste per la consegna di cibo a domicilio. Sembra quindi ci siano stati reclutamenti a valanga di fattorini in condizioni di emarginazione sociale, ovviamente costretti ad attraversare la città sprovvisti di qualsiasi dispositivo di protezione o tutela per la propria salute. A Torino, intanto, un gruppo di avvocati che da anni cerca di tutelare i rider ha presentato un esposto contro pratiche analoghe, sottolineando la necessità di indagare anche per reati legati al rispetto dell’integrità fisica e morale dei lavoratori, spesso costretti a orari disumani.
La speranza è che questi episodi possano far luce sulle varie forme di sfruttamento, per lo più subdole, che ci circondano, da combattere attraverso un ampliamento del ventaglio di tutele che spettano ai lavoratori, oltre che un rafforzamento dei controlli sui datori di lavoro, alla cui buona fede e magnanimità troppo spesso ci si affida, per poi essere tristemente smentiti dai fatti.