Mentre negli Stati Uniti la protesta imperversa e si piange un’altra vittima del razzismo sistemico, il Presidente di quel che resta della più grande democrazia del mondo twitta dal bunker. Twitta lapidario Law&Order, Fake News e altri slogan del suo repertorio. Twitta che gli antifascisti sarebbero da considerare alla stregua di terroristi ed è così che li etichetterà da oggi l’America. Un tweet, questo, che è stato ripreso anche dai sovranisti di casa nostra (l’account ufficiale di Lega – Salvini Premier), come se ci fosse ancora bisogno di fugare dubbi sulla loro posizione in merito a diritti umani e razzismo.
Negli ultimi giorni, Twitter è diventato la principale cassa di risonanza di chi protesta: ogni minuto vengono pubblicati e trasmessi brevissimi video che mostrano le violenze della polizia nei confronti dei manifestanti. Gli arresti degli afroamericani vengono filmati e messi su internet, nell’intento di documentare gli avvenimenti, ma anche – seppur non dichiaratamente – di scongiurare violenze più brutali che si verificherebbero a telecamere spente. Ma in questo clima già saturo di repressione, due episodi risultano particolarmente significativi per porci ancora una volta domande sulla libertà d’espressione e di stampa nel ventunesimo secolo: la decisione del Presidente Donald Trump di firmare un provvedimento esecutivo per rettificare la Section 230 del Communications Decency Act – che regola le responsabilità legali dei social media rispetto ai contenuti postati da terzi sulle piattaforme – e l’arresto in diretta di un corrispondente nero della CNN durante le proteste a Minneapolis.
La firma del provvedimento è arrivata dopo la decisione di Twitter di inserire, sotto alcuni controversi tweet del Presidente USA, dei tag che esortassero gli utenti al controllo delle fonti. Una delle affermazioni di Trump a meritare l’etichetta suggeriva di usare la violenza sui manifestanti (when the looting starts, the shooting starts) citando, non proprio felicemente, il capo della polizia di Miami, il quale aveva usato quella frase nel 1967 in riferimento alle proteste per i diritti civili, e il candidato presidenziale George Wallace, noto segregazionista.
Twitter, come altri social media, subisce da tempo le pressioni degli utenti a un monitoraggio più attento dei contenuti presenti sulla piattaforma per quanto riguarda materiale controverso e fake news. Il Tycoon ha quindi letto nella decisione del social una volontà di schierarsi contro di lui e ha subito rispolverato un vecchio cavallo di battaglia populista: l’impedimento della libertà d’espressione e la censura. Agendo da sovrano illuminato, ha deciso dunque di firmare un provvedimento esecutivo che segnasse il passaggio di Twitter e degli altri social media da tech company a publisher. Come qualunque altro editore, insomma, anche i social network potrebbero essere ritenuti responsabili davanti alla legge dei contenuti pubblicati sulle loro piattaforme.
La pesante modifica al Communications Decency Act che, di fatto, viene ritenuta inapplicabile dai giuristi, crea tuttavia un pericoloso precedente per quanto riguarda gli equilibri vigenti tra media e potere, già piuttosto sbilanciati. Non è, infatti, un segreto che le leggi che permettono la pubblicazione e la copertura dei contenuti sui social rispondano più all’ideologia dei dollari che non ai programmi politici. Ne è una prova il fatto stesso che Twitter non abbia oscurato i controversi post di Donald Trump ma si sia limitato a segnalarli con un tag. Ne sono la prova gli sciami di fake news e disinformazione, di contenuti che incitano all’odio razziale, al fascismo e alla supremazia bianca che inquinano Facebook senza alcun tipo di filtro oltre allo strumento attivo della segnalazione di post e commenti. Le tech company sono già editori senza veramente esserlo poiché vendono il proprio spazio al miglior offerente. E se a spendere milioni di dollari in sponsorizzazioni è un personaggio politico che ha fondato la propria campagna elettorale su slogan nazionalisti e divisivi, saranno i suoi contenuti quelli meglio indicizzati dalla piattaforma. Questa dinamica viene chiamata da Mark Zuckerberg libertà di espressione. A tal proposito, il fondatore e CEO di Facebook ha rilasciato, in seguito alla querelle Twitter/Trump, una dichiarazione sul suo profilo della quale citiamo il passaggio saliente:
Sono responsabile delle mie reazioni non solo come persona, ma come leader di un’istituzione votata alla libertà d’espressione. Lo so che molti sono contrariati perché abbiamo lasciato visibili i post del Presidente, ma la nostra posizione è che dovremmo permettere il più possibile l’espressione, a meno che ciò non costituisca un rischio di pericolo imminente o di specifici danni esplicitati da linee di condotta chiare. […] La nostra politica rispetto all’incitamento alla violenza permette che si discuta l’uso della forza da parte dello Stato, anche se credo che la presente situazione sollevi domande importanti sui limiti potenziali di tale discussione. […] A differenza di Twitter, la nostra politica non è mettere un avviso davanti ai post che potrebbero istigare alla violenza perché crediamo che se un post istiga alla violenza andrebbe rimosso a prescindere dal fatto che sia attendibile, anche se lo ha scritto un politico. […] Le persone possono essere d’accordo oppure no su dove decidiamo di tracciare il confine, ma spero che capiscano che la nostra filosofia complessiva è che è meglio discutere apertamente, specialmente quando la posta in gioco è così alta. Prendo le distanze dal modo che ha scelto il Presidente per parlarne, ma credo che la gente dovrebbe poter decidere per sé, perché in fin dei conti la responsabilità di coloro che occupano posizioni di potere può essere impugnata solo quando i loro discorsi sono esaminati apertamente.
In seguito alla dichiarazione del CEO e al rifiuto di rimuovere i contenuti offensivi di Trump dal social network, i dipendenti di Facebook hanno deciso di schierarsi contro la sua politica e di scioperare. Andrew Crow, capo designer della divisione videochiamate di Facebook Portal ha commentato su Twitter: Fornire una piattaforma per istigare alla violenza e per diffondere la disinformazione è inaccettabile, a prescindere dall’attendibilità e da chi tu sia. Mi trovo in disaccordo con Mark e lavorerò per innescare un cambiamento.
È chiaro, a questo punto, che quello di libertà di espressione sia un concetto quanto mai viziato nella nostra epoca. A riempirsi la bocca di questo termine è chi minaccia di usare il proprio potere di Capo di Stato per indebolire o zittire chi individua come avversario. A usarlo è il proprietario della più grande piattaforma social del mondo, che si para dietro lo scudo dell’etica quando l’unica libertà che gli interessa è il profitto. La libertà d’espressione impugnata dai populisti, dai sovranisti e dai suprematisti bianchi è retorica che ha il sapore dell’impunità. Serve a confondere, svilire e depotenziare il confronto democratico. Serve a far passare l’idea che le menzogne e l’odio razziale, una volta assurte al sacrosanto reame delle opinioni, non possano essere intaccate. Che chi si indigna sia un censore.
Mark Zuckerberg, con le sue dichiarazioni, non fa altro che avallare questa visione delle cose. Dicendo se il messaggio del Presidente avesse istigato alla violenza, lo avremmo rimosso implica che i post di Trump fossero pacifiche manifestazioni e non aperte minacce. Dicendo che Facebook permette di esprimere messaggi privi di filtri perché crede nella libertà d’espressione, tace il dettaglio che gli algoritmi della piattaforma filtrano eccome i messaggi, dando priorità a quelli sponsorizzati con grosse cifre di denaro. E dunque Zuckerberg, che si professa paladino della libertà d’espressione, non è trasparente. Al pari del Presidente USA.
D’altro canto, per scoperchiare il vuoto della retorica trumpiana sulla libertà d’espressione, basta tenere d’occhio l’accanimento suo e dei suoi nei confronti delle libertà di stampa. Durante le proteste di Minneapolis, la polizia in tenuta antisommossa ha accerchiato e arrestato in diretta televisiva Omar Jimenez, un reporter della CNN. Il giornalista si era regolarmente identificato. Dopo questo episodio, verificatosi il 29 maggio scorso, decine di colleghi e fotoreporter hanno denunciato un trattamento violento da parte degli agenti. Di tutta risposta, Trump ha apertamente accusato la stampa di fomentare l’anarchia e l’odio con la copertura mediatica, tacciandola di diffondere falsità. Nel frattempo, nonostante le etichette di fact-checking e i solleciti dalla community, i social continuano a fornire al Presidente uno strumento per esprimere liberamente la sua ostilità verso chi la pensa diversamente da lui.