La scorsa settimana sono state respinte le due mozioni di sfiducia presentate al Senato contro il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dopo una lunga discussione che ha visto la partecipazione di tutti gli attori politici. Si è trattato in effetti di due mozioni molto diverse tra loro: la prima firmata dai capigruppo di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia, con la quale si accusava il Guardasigilli di essere stato troppo morbido e accondiscendente nella gestione dell’emergenza carceraria – fomentando dunque la polemica riguardante le scarcerazioni e i famosi carcerati a passeggio; la seconda presentata da Emma Bonino di +Europa con la quale, al contrario, si rimproverava il Ministro di un eccessivo giustizialismo, che nulla ha a che vedere con la funzione rieducativa cui la pena dovrebbe tendere in base alla Costituzione.
Pur trattandosi di argomentazioni profondamente diverse, entrambe le mozioni sono state respinte, rispettivamente con 160 e 158 voti contrari, ma la discussione che le ha accomunate ci spinge a fare riflessioni che vanno ben oltre la mancata sfiducia e dunque la tenuta, seppur in bilico, dell’attuale governo. Ancora una volta, infatti, si è persa l’occasione per un dibattito serio sulla funzione della pena e sull’attuale assetto del sistema carcerario che assume sempre di più i contorni di un sistema esclusivamente repressivo.
Tutte le parti intervenute hanno messo in scena una becera propaganda politica, dimostrando di non tenere in alcuna considerazione i temi trattati. Decisivo è stato l’intervento di Matteo Renzi che, confermando la fiducia di Italia Viva al Guardasigilli, ha evitato di mandare in frantumi l’attuale assetto governativo, ma non senza protagonismi di sorta. «Noi non siamo come voi», ha tuonato il leader di IV rivolgendosi al MoVimento 5 Stelle, prodigandosi poi nell’elenco di tutti i Ministri dei suoi esecutivi che invece dai pentastellati sono stati sfiduciati. Quindi, pur precisando che a suo parere i temi messi sul banco dall’opposizione fossero reali, ha preferito non affrontarli per poi vantarsi di aver così tenuto in piedi il governo. Inoltre, come se si trattasse di una gara a squadre, ha precisato che i suoi fanno parte dei garantisti, eppure hanno anche saputo gridare a gran voce che no, Totò Riina non esce di carcere per morire perché quello è il suo posto. Un’inusuale interpretazione del termine garantista quindi, poiché il diritto alla salute e alla dignità si coniugano in modo diverso a seconda del cittadino cui si rivolgono, nonostante il dettato costituzionale parli chiaro in proposito individuandoli come valori supremi del nostro ordinamento.
La narrazione leghista è invece sempre la stessa e a ricordarcelo ha pensato il Senatore Pepe quando, presa la parola, ha ribadito di volere la sfiducia del Ministro delle scarcerazioni allegre, assumendo il solito tono propagandista e non ancorato a dati reali. La dimostrazione che la partita che si stava giocando fosse esclusivamente politica e disinteressata ai temi della giustizia e dell’emergenza carceraria, dunque, è arrivata proprio dal partito di Matteo Salvini, che ha deciso di votare a favore di entrambe le mozioni, pur presentando esse ragioni opposte e del tutto inconciliabili. Tutto purché Bonafede abbandoni la sua poltrona, insomma.
Ma probabilmente la parte peggiore è stata proprio la difesa di Bonafede, che ha sostenuto di rifiutare una giustizia divisa tra giustizialisti e garantisti, avendo come unico punto di riferimento la Carta Costituzionale. Tuttavia, anziché difendere i provvedimenti del Cura Italia in base alla loro necessità e al rispetto di quei valori costituzionali di cui dice di farsi portavoce o gli stessi provvedimenti assunti dalla magistratura che tanto hanno fatto scalpore facendo appello all’imparzialità dei giudici che non deve in alcun modo essere minata, si è limitato a una flebile replica in cui ha detto di non accettare altre illazioni sulla diatriba con Di Matteo, precisando che si è trattato dell’applicazione di leggi che esistono da cinquant’anni e che nessuno fino a questo momento ha modificato. Quindi meglio non rivendicare la paternità e la giustizia di provvedimenti che, seppur condivisibili, hanno creato tante polemiche. Non una replica sull’accusa di eccesso di garantismo lanciata dalla Lega, non una puntualizzazione sul fatto che rispettare i diritti dei detenuti, qualunque sia il reato, assicurare loro condizioni di vita meno precarie e scongiurare il contagio siano un suo preciso dovere, oltre che una preoccupazione che dovrebbe appartenere a tutti i cittadini.
Nessuno quindi si è degnato di sollevare criticità che il sistema penitenziario e penale nel suo complesso presentavano molto prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria. Basti pensare al sovraffollamento – che per l’ex capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria Basentini rappresenta un falso problema – alle lungaggini processuali, alla continua criminalizzazione di condotte che sono frutto di condizioni di vita che non vanno eliminate attraverso una crescita della repressione, bensì attraverso politiche di welfare serie che sappiano mettere al centro i cittadini e i loro reali bisogni, cui si dà una risposta esclusivamente securitaria.
Lungi da noi gioire perché le mozioni di sfiducia sono state respinte, seguendo una retorica per cui in questo momento di emergenza è necessario escludere qualsiasi crisi, ma l’operato di Bonafede andava messo in discussione molto prima del sopraggiungere di una tale diatriba politica. La sua gestione dell’emergenza sanitaria in carcere è stata superficiale e tipica di chi gli istituti non li ha mai visitati né conosciuti sul serio. Aver scongiurato, per il momento, la diffusione a macchia d’olio del virus all’interno dei penitenziari è stato esclusivamente merito della celerità di magistrati di sorveglianza illuminati che, anziché perdersi in dibattiti di carattere burocratico, hanno applicato tutte le norme possibili per diminuire la popolazione detenuta. Quegli stessi magistrati che sono immediatamente diventati il capro espiatorio per nascondere sotto il tappeto politiche scellerate e prive di senso.
Quindi è vero che Bonafede non può rivendicare alcuna paternità né merito nelle misure deflattive messe in campo che hanno permesso di salvare la vita a molti che, rimanendo in carcere, sarebbero andati incontro a morte certa, ma tra i suoi meriti possono sicuramente annoverarsi lo scoppio di polemiche sterili sulle scarcerazioni, l’eliminazione di qualsiasi riferimento alla detenzione domiciliare inizialmente prevista nel DPCM firmato il 17 maggio, la stigmatizzazione dei detenuti su tutti i giornali. Si tratta di un suo merito poiché non è riuscito, a differenza di quanto dice, a farsi portavoce di quei valori costituzionali che dovrebbero guidarne l’operato e che, forse, dovrebbe difendere con maggiore forza, non lasciandosi sopraffare da chi nutre gli italiani attraverso narrazioni tossiche fino a trascinarli in tifoserie da stadio e in suddivisioni tra buoni e cattivi, categorie che nulla hanno a che vedere con la vera giustizia.
Ma, probabilmente, non ci si poteva aspettare di più da chi solo pochi mesi fa individuava esclusivamente nella costruzione di nuovi penitenziari la soluzione al problema del sovraffollamento. Da chi non ha mai guardato oltre il proprio naso, né si è reso conto dell’abbrutimento cui il carcere conduce, dell’alienazione che la detenzione comporta e della totale mancanza di rieducazione e risocializzazione nel percorso carcerario. Le sue dimissioni dovevano essere presentate molto tempo fa, ma probabilmente sarebbe stato chiedere troppo.