Come ogni 23 maggio che si rispetti, anche quest’anno ci siamo ritrovati inondati da dichiarazioni di politici e di rappresentanti delle istituzioni che hanno voluto ricordare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i ragazzi della scorta. A loro si sono unite le dediche di tanti cittadini comuni, a dimostrazione del fatto che il magistrato siciliano e i suoi colleghi hanno lasciato un segno profondo nella società.
Il pensiero che ricorre in queste giornate commemorative è sempre lo stesso: come sarebbero oggi il nostro Paese, la nostra magistratura, la nostra classe politica se quegli uomini e quelle donne fossero ancora vivi? Che ruoli ricoprirebbero o avrebbero ricoperto Falcone, Borsellino, Chinnici, se la mafia non li avesse fatti saltare in aria? Ci piace pensare che si sarebbero ritrovati nei luoghi di vertice dello Stato in maniera tale da essere così incisivi che i partiti avrebbero dovuto necessariamente ripulirsi, la trasparenza sarebbe stato il principio fondante dell’agire comune. Temiamo, però, che questa sia solo una bella favoletta e che, in realtà, qualcuno li avrebbe etichettati come toghe rosse, magistrati politicizzati, complici di una giustizia a orologeria, asserviti a questo o a quell’altro: per tale motivo, preferiamo restare ancorati alle nostre utopie e immaginarli come avremmo voluto che andassero le cose.
Non potendo onorarli direttamente con incarichi di prestigio, però, possiamo quanto meno tradurre in atti concreti quella che è stata la loro azione, provando a tenere fede alle idee che li hanno guidati. Il che si può fare anche nella peggiore delle pandemie, quando siamo all’alba – si spera – di una ricostruzione epocale. E, si sa, ricostruire vuol dire far girare parecchi soldi. Il Presidente del Consiglio ha spesso fatto riferimento alla trasparenza che deve contraddistinguere il suo operato con riguardo al rapporto tra il governo e i cittadini: dei suoi errori abbiamo già parlato ma, in effetti, almeno in questi mesi è stato piuttosto di parola, dal momento che ci ha sempre messo la faccia per dirci quale fosse la situazione.
Adesso, però, c’è bisogno di un’altra trasparenza, che sta a significare che la riedificazione deve essere effettuata in maniera lineare, attenta e cristallina, avendo sempre a mente chi fa cosa e in mano a chi finiscono i soldi dei contribuenti. Proprio per questo, ci ha lasciato non poco perplessi una proposta dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), sezione Toscana, in merito alla ripresa dei lavori pubblici a seguito del coronavirus. Intendiamoci, è stata un’ottima idea quella di coinvolgere l’ANCI – nella persona del suo presidente Antonio De Caro, Sindaco di Bari – a ogni tavolo decisionale sulle misure da adottare in questa fase, non fosse altro che i Comuni hanno la grossa responsabilità di essere l’ente territoriale più vicino alle istanze degli individui e, di conseguenza, l’ente a cui i cittadini si rivolgono con maggiore facilità.
Tuttavia, proprio per la funzione essenziale che i Comuni rivestiranno da qui in poi, ci aspettiamo trasparenza decisionale che sarebbe particolarmente compromessa dalla proposta in questione. Essa, infatti, prevede per il triennio 2020-2022 un ricorso agli affidamenti diretti anche senza acquisizione di preventivi per lavori fino a 100mila euro e la possibilità di affidamento mediante procedura negoziata con richiesta di almeno tre preventivi fino all’importo di 350mila euro. Si chiede, infatti, di introdurre modifiche mirate ai procedimenti amministrativi di gara e appalto, al fine di semplificare i procedimenti, eliminando alcune fasi e riducendo i tempi di esecuzione di altre. Questo vorrebbe dire che si consentirebbe di affidare lavori pubblici – dunque lavori per i cittadini con i soldi delle loro tasse – senza un appalto, quindi senza una procedura che consenta di verificare la proposta, la fattibilità e i mezzi di realizzazione di un’opera con i criteri stabiliti dal legislatore. Tutt’altro: gli enti comunali potrebbero affidarne direttamente la realizzazione se il limite massimo del lavoro fosse di 100mila euro. Diversamente, se tale limite consistesse in 350mila euro, si attiverebbe la procedura negoziata, il che significherebbe per la stazione appaltante – in questo caso il Comune – la consultazione di operatori economici, dunque le imprese da essa scelti – in base alla sua totale discrezione – negoziando con una o più tra loro le condizioni per la procedura d’appalto, cioè derogando alla struttura procedurale ordinaria dell’appalto.
Nella proposta avanzata dall’ANCI si legge poi che, in caso di ricorso sui procedimenti di gara davanti al giudice amministrativo, se la sentenza di primo grado è favorevole al Comune mentre in appello esso soccombe, questo si limiterà a risarcire colui che ha fatto appello senza, però, sciogliere il contratto con l’impresa aggiudicataria: di conseguenza, se il giudice d’appello dovesse rilevare delle anomalie sul procedimento di gara, non potrebbe risolvere il contratto tra Comune e impresa ma stabilire solamente un risarcimento. Ebbene, per quanto sia legittimo l’obiettivo dei Comuni di svolgere i lavori in tempi rapidi, a che prezzo ciò rischierebbe di avvenire? Possiamo sopportare il sacrificio di derogare così tanto pur di ottenere maggiore celerità, nonostante la trasparenza sia uno dei principi cardini della pubblica amministrazione? E, soprattutto, davvero chi sostiene questa proposta non si rende conto che, ampliando il ventaglio di ipotesi in cui ricorrere all’affidamento diretto, ci sarebbe il potenziale ma serio rischio che qualcuno ne approfitti per favorire gli amici degli amici? Tutto questo, ricordiamocelo, accadrebbe in un periodo in cui gireranno parecchie risorse economiche, senza contare le possibili infiltrazioni della criminalità organizzata. Ecco, forse non dobbiamo fare chissà quale gesto estremo per onorare Falcone da morto, ma badare a questi aspetti e pretendere trasparenza. Ottenerla sarebbe già abbastanza.