Spiace molto sentir così tanto parlare di Nino Di Matteo soltanto in occasione dello scenario che lo vede contrapposto al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. E dispiace in primo luogo per le dinamiche con cui la situazione è venuta a crearsi, ossia all’interno di una trasmissione televisiva quale Non è l’Arena – che nei toni è ormai difficile distinguere persino dai talk show di Rete 4 –, ma anche e soprattutto perché questa vicenda ha fatto aprire la bocca di tanti che dell’operato del magistrato siciliano, delle sue inchieste, delle minacce ricevute e degli ostacoli incontrati se ne sono sempre infischiati. Naturalmente non ci riferiamo alle note di solidarietà: quelle non mancano mai, pronte per essere compilate, un po’ come i modelli di autocertificazione che abbiamo imparato a conoscere in questi mesi.
Piuttosto, intendiamo fare riferimento a quanti hanno ignorato il lavoro dell’attuale membro del CSM al punto tale da sminuirlo o screditarlo. Gente che sta approfittando di uno scontro tra un magistrato e un Ministro al solo scopo di fare sciacallaggio mettendosi ipocritamente al fianco di qualcuno che loro – o chi per loro – hanno sempre fatto finta che non esistesse. Si pensi, infatti, a chi non credeva o non voleva parlare dell’inchiesta da lui co-condotta sulla Trattativa Stato-mafia, personaggi per i quali, da qualche giorno, Di Matteo è diventato intoccabile. Anzi, addirittura chiedono a gran voce le dimissioni di Bonafede per le ombre che girano attorno alla decisione di non nominarlo a capo del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria).
A tal proposito, fa uno strano effetto sapere che tra quelli che adesso si stracciano le vesti per il mancato incarico ci sia, ad esempio, Mariastella Gelmini secondo cui o Di Matteo lascia la magistratura o Bonafede si dimette: verrebbe da chiedersi, allora, cosa suggerisca di fare al suo leader Silvio Berlusconi a proposito del quale la Corte D’Assise di Palermo – come si legge nelle motivazioni della sentenza del processo relativo, guarda caso, alla Trattativa di cui sopra – afferma che è incontestabile che, nel periodo successivo alla morte di Stefano Bontade e durante il dominio di Salvatore Riina, non è registrata alcuna interruzione dei pagamenti cospicui da parte di Silvio Berlusconi. […] Il gruppo imprenditoriale milanese facente capo a Silvio Berlusconi pagava somme di denaro alla mafia, a titolo estorsivo, e ciò fino agli inizi degli anni ‘90.
Così come siamo curiosi di capire con che faccia Giorgia Meloni sia improvvisamente diventata paladina della legalità, la stessa che ai tempi del PDL dichiarava che le sfuggisse in ragione di cosa il senatore Dell’Utri avrebbe dovuto intrattenere rapporti con la criminalità organizzata per conto di Berlusconi quando Berlusconi non era nemmeno entrato in politica, sebbene sia poi stata smentita dalla condanna definitiva nei confronti di Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa e abbia continuato ad allearsi con il partito che il già Senatore siciliano aveva contribuito a fondare. Ebbene, se questo serve a spiegare per quale motivo il PM palermitano non possa essere di punto in bianco l’eroe di quel mondo lì, dobbiamo essere altrettanto chiari nell’affermare che anche il Guardasigilli ci ha fatto una pessima figura.
I fatti sono risaputi: verso metà giugno 2018 Bonafede contatta Di Matteo per offrirgli un posto a sua scelta tra quello di direttore della Direzione degli Affari Penali e quello di direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Dopo una serie di colloqui telefonici e vis à vis, il magistrato più a rischio d’Italia comunica al Ministro di preferire il secondo, ma il titolare del Dicastero della Giustizia gli risponde di aver già scelto il dottor Basentini perché gli è parso di capire che Di Matteo non fosse interessato. Così il tutto si conclude con un nulla di fatto. Ora, certamente non giova al Ministro di via Arenula fare la figura di chi in un incontro formale non coglie non un particolare tecnicismo bensì le intenzioni di un PM ma, oltre a questo, se davvero c’è stato un misunderstanding, Bonafede avrebbe dovuto fare di tutto per assicurare al DAP uno come Di Matteo – anche al costo di alzare la cornetta e telefonare a Basentini chiedendogli magari di affiancarlo o di accettare un altro ruolo – non solo per l’esperienza del magistrato palermitano che non avrebbe fatto che bene in quel dipartimento, ma anche per gratificarlo a nome dello Stato e per non fargli pensare di essere stato lasciato solo ancora una volta.
L’altra teoria, invece, è quella per cui Bonafede starebbe mentendo e avrebbe cambiato idea perché il PM della Trattativa non era gradito alla Lega, allora alleato di governo: ricordiamo che facciamo riferimento a fatti avvenuti nelle prime settimane del Conte 1, quando – per intenderci – Salvini blaterava che per i migranti la pacchia fosse finita e i 5 Stelle non battevano ciglio. Se questa ipotesi fosse vera, dunque, non solo verrebbe ulteriormente confermata la soccombenza dei grillini nei confronti dei leghisti, ma ci troveremmo di fronte all’ennesimo tradimento del M5S: non verso Di Matteo ma verso se stesso e i propri elettori che hanno sempre riconosciuto nel magistrato e in quelli come lui un punto di riferimento.
In questa chiave, la figura di Bonafede sarebbe incompatibile con tutte le battaglie legalitarie di cui il suo movimento si è fatto portavoce negli anni e dovrebbe dimettersi per aver mentito – cosa che un uomo delle istituzioni non può fare –, vergognandosi per la volontaria mancata parola a Di Matteo. Ma a prescindere dalle due teorie resta comunque un dato di fatto: il PM, che fortunatamente è approdato al CSM, non è al DAP e ancora una volta ci siamo privati di una figura preziosa in un ruolo notevole. E questa è una colpa.