Prima di parlare di The Hunt, film prodotto dalla Blumhouse – che sarebbe dovuto uscire nelle sale in Italia a marzo, distribuito dalla Universal, e che invece è approdato direttamente sulle piattaforme on demand – facciamo un passo indietro. C’era una volta un racconto, La partita più pericolosa, pubblicato da Richard Connell nel 1924, che narrava di Zaroff, un principe russo sfuggito alla rivoluzione del 1917, il quale, ossessionato dalla disciplina venatoria ma annoiato dalla scarsa intelligenza delle prede animali, era passato alla caccia ben più appassionante di prede umane. Tutti i malcapitati che non casualmente naufragavano sulla sua isola-rifugio venivano inizialmente accolti come ospiti e poi cacciati. Soprattutto, c’era una volta un film, Pericolosa partita (conosciuto in Italia anche come Caccia fatale – in originale The most dangerous game), prodotto dalla mitica RKO e diretto nel 1932 da quell’Ernest B. Schoedsack che, l’anno seguente, avrebbe poi realizzato, in una regia a quattro mani con Merian Cooper, quel capolavoro del fantastico che fu il primo King Kong.
Caccia fatale impose nell’immaginario collettivo ciò che poi sarebbe diventato un archetipo narrativo, ovvero quello della caccia all’uomo per puro divertimento. Questo modello trovò numerose declinazioni, non solo nei successivi adattamenti del racconto di Connell – rispettivamente del 1945, 1957, 1966 e, infine, quello del 1993 con Jean Claude Van Damme, Senza tregua, esordio americano del maestro del cinema d’azione di Hong Kong John Woo – ma, soprattutto, in molte varianti sul tema, per lo più di ambientazione futuribile, sia in letteratura che al cinema. In quest’ambito vale la pena ricordare La decima vittima (1965), pellicola di fantascienza distopica italiana del maestro Elio Petri – noto per i suoi capolavori di impegno civile come il classico Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) –, tratto a sua volta da un racconto di Robert Sheckley, La Settima vittima (1954).
Nel film di Petri, un ossigenato Marcello Mastroianni se la vedeva con una discinta Ursula Andress, sua avversaria nell’ambito di una caccia all’uomo che, in un futuro prossimo, era stata legalizzata in tempi e termini ben circoscritti. Analogamente, nel gustosissimo The running man (1987), con Arnold Schwarzenegger, liberamente tratto dal racconto di Stephen King L’uomo in fuga (1982), assistiamo a un gioco televisivo nel quale i concorrenti, prelevati dalle classi meno abbienti, devono sfuggire a cacciatori, assurti a star televisive, armati di arnesi decisamente sopra le righe come motoseghe o lanciafiamme. Infine, arriviamo alla recente saga di Hunger Games, basata sui romanzi di Suzanne Collins, in cui i giochi a eliminazione tra i giovani prescelti dai vari settori in cui è diviso il mondo vengono trasmessi anche qui in diretta televisiva, nel corso della quale avranno la possibilità, se sopravvivranno, di diventare famosi e riscattarsi socialmente.
A prescindere dalle numerose varianti realizzate e dagli esiti più o meno riusciti, il tema della caccia all’uomo si è sempre rivelato un’ottima metafora delle peggiori pulsioni dell’animo umano riassumibili nel famoso detto – attribuibile a Plauto – Homo homini lupus, nonché un pretesto per mettere alla berlina la società della distrazione di massa e, ancor di più, un’allegoria, dai toni spesso drastici e grotteschi, dello sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo, sia inteso come classe sociale che come individuo. The Hunt è dunque solo l’ultima declinazione di una storia che, in diverse salse e con risultati più o meno interessanti, ormai attraversa la narrazione moderna da quasi un secolo.
Quei furbacchioni della Blumhouse, casa di produzione fondata da Jason Blum e responsabile della rinascita del genere horror negli ultimi dieci anni con risultati alterni tra cui la saga, ormai spremuta, di Insidous e i politici e più intriganti Scappa – Get out (2017) e Noi di Jordan Peele (2019), non potevano lasciarsi sfuggire l’occasione di aggiornare il tema della caccia all’uomo ai tempi attuali. Affidata la sceneggiatura a Nick Cuse e al Damon Lindelof di Lost, Leftovers e Watchmen (la serie) – che in questo caso deve essersi divertito non poco a reinterpretare il tema secondo il suo gusto post-moderno, in un lavoro sicuramente meno impegnativo rispetto ai suoi soliti standard –, nonché la regia a Craig Zobel, reclutato tra le fila di registi che avevano realizzato alcuni episodi di Leftovers e di Westworld, ne viene fuori un survival horror dai toni satirici con protagonista una strepitosa e beffarda Betty Gilpin nel ruolo di Crystal, la final-girl di turno che darebbe tranquillamente del filo da torcere alla Beatrix Kiddo di Kill Bill.
La trama, molto semplice, è presto detta: una dozzina di persone, dopo essere state rapite, si risvegliano imbavagliate in una radura. Al centro una cassa piena di armi: pistole, fucili, coltelli e machete. Non appena se ne impossessano comincia la caccia: molte di loro vengono falcidiate già sul posto. Nella prima adrenalinica sequenza, infatti, il punto di vista passa da un personaggio all’altro, facendoci identificare per una manciata di minuti con l’uno o con l’altro finché lo spettatore intuisce che, almeno in questa parte, sarebbe un errore affezionarsi troppo a qualcuno. Molto efficace dunque il depistaggio emotivo con il quale Zobel ci fa palpitare alternativamente per vari personaggi che dureranno però pochissimo.
Ma chi sono gli aguzzini elettisi a Master di questo crudele gioco di ruolo? Sono i gendarmi del politically correct, gli strenui difensori della lotta per i diritti delle minoranze, vegetariani convinti, antirazzisti, divulgatori degli effetti del cambiamento climatico e, ironia delle ironie, contrari alla diffusione delle armi. Le vittime dello spietato gioco invece sono i cosiddetti redneck, i bifolchi americani che hanno votato Trump, che dormono con il fucile sotto il letto e diffondono complottismi sui social contro le élite liberal. Non sarà dunque raro, nel corso della pellicola, vedere personaggi che, dopo aver allegramente massacrato qualcuno, disquisiscono sulla legittimità dell’utilizzo del termine nero in luogo di afroamericano, visto che ormai anche la radio nazionale lo utilizza. La metafora è quindi spiattellata in faccia allo spettatore con tutta la dirompenza di una granata che dilania i corpi.
Gli organizzatori del gioco, però, non hanno tenuto conto di una variabile e cioè che nel loro gregge di vittime designate ci finisse, per sbaglio, una scheggia impazzita. La nostra Crystal, soprannominata Snowball – lasciamo al pubblico il piacere di scoprire perché – che, evidentemente addestrata militarmente, sarà l’unica a prendere in mano la situazione e a rigettare al mittente le pallottole e le coltellate. Sarà lei dunque a rivendicare il diritto all’esistenza di opinioni diverse e soprattutto a stravolgere inaspettatamente i piani di coloro che, assurgendosi a detentori dell’unica verità accettabile sul mondo, si eleggono carnefici in nome dell’ideologia.
D’altro canto, non si salvano moralmente neanche le vittime dei progressisti massacratori e cioè i bifolchi conservatori. Questi vengono dipinti come arroganti nella loro ignoranza, ottusi complottisti che diffondono odio sui social e che effettivamente credono nel loro sacrosanto diritto, tipicamente americano, di farsi giustizia da sé, detenendo qualunque arsenale casalingo che li faccia sentire più sicuri. Un gioco al massacro da cui non esce bene nessuno e che, manco a dirlo, ha suscitato non poche polemiche, risultando inviso sia ai sostenitori di Trump che ai liberal progressisti.
L’uscita nelle sale di The Hunt era prevista per il 27 settembre 2019 ma, in seguito alle stragi della scorsa estate di Dayton e di El Paso, la Universal ha deciso di rimandarla al 13 marzo 2020, data in cui è stato effettivamente distribuito nelle sale americane, mentre in Italia, essendo già in vigore il lockdown, è arrivato direttamente sulle piattaforme on demand come Chili, Rakuten e Timvision dal 27 marzo. Dopo alcune proiezioni di prova tenutesi comunque a inizio agosto, lo stesso Presidente americano, riferendosi al film affermò che la Hollywood liberale è razzista al massimo livello… Il film in uscita è fatto per infiammare e causare il caos… Creano loro stessi la violenza e poi cercano di incolpare gli altri. Di micce pronte a innescare polemiche era dunque pregna questa pellicola che in Italia è passata inosservata perché presi giustamente da problemi un po’ più impellenti.
Con umorismo nero e violenza tarantiniana si snoda una vicenda in cui il contrappasso beffardo la fa da padrone e i toni sono ovviamente qualche chilometro al di sopra delle righe. Le soluzioni visive sono efficaci e alcuni snodi narrativi certamente intriganti, grazie soprattutto ai flashback che svelano quali eventi hanno portato alla nascita della caccia e perché sono state designate proprio quelle persone come vittime. Da segnalare, nel ruolo di Athena, la spietata artefice della caccia, la bravissima, nonché due volte Premio Oscar – per Boys don’t cry (1999) e per Million Dollar Baby (2004) – Hillary Swank, mai così glaciale e infida. Quasi superfluo sottolineare come il nome del personaggio riprenda quello della dea greca della saggezza, delle arti, ma anche della guerra.
Carta vincente di The Hunt è Betty Gilpin, interprete di Snowball, che con le sue espressioni stralunate e beffarde, le battute lapidarie e la notevole intensità emotiva che le permette di spaziare dalla disperazione alla freddezza più letale, si candida a eroina degna del miglior Tarantino. Di quest’ultimo, la pellicola di Zobel è ovviamente debitrice, con le sue vagonate di violenza improvvisa, riversata in maniera fumettistica e dissacrante. Come si diceva, la metafora politica non è sottesa ma è sparata in faccia allo spettatore con la forza bruta di un fucile a pompa. Sfumature non ce ne sono molte, il respiro del film è corto ma il divertimento è garantito per chi apprezza un B-movie con un ottimo ritmo e una protagonista che non si dimentica facilmente. Prendere o lasciare.