È di queste settimane il susseguirsi di frasi a effetto – ovviamente per chi ne subisce il fascino – pronunciate da esponenti di quella politica che più volte ho definito piccola e mediocre. Frasi che hanno raggiunto ormai l’apice della sopportazione e della decenza. Qualcuno mi taccerà di possedere poca memoria in quanto il primato dell’indecenza ha radici in quel Berlus-virus che ha infettato non solo il mondo della politica ma un po’ tutto il vivere sociale, particolarmente condizionato dalle sue televisioni dai toni sempre più trash entrati prepotentemente nell’uso comune.
Che il linguaggio del politico sia il più delle volte strumentale e rapportato al proprio uditorio non c’è dubbio, ma che la parte pensante del Paese debba accettarlo e subirne le volgarità espressive, le stupidità e persino le offese, appare davvero inaccettabile. Ai tempi di Silvio, la cafonaggine e l’arroganza sono stati patrimonio innanzitutto di quella formazione politica nata alla fine degli anni Ottanta, inizi Novanta, con il loro massimo rappresentante, Umberto Bossi – dallo stile tutt’altro che oxfordiano –, superato poi dall’eurodeputato Mario Borghezio in buona compagnia di quella costola staccatasi da Gianfranco Fini e migrata verso l’ex Cavaliere.
Qualcuno, dunque, si sarà chiesto: se il virus ha funzionato tenendo a galla i governi del bunga bunga, perché non sfruttarne l’efficacia tanto gradita ai numerosi contagiati? E, così, l’erede di Bossi, qualche brandello del fu Popolo delle Libertà e anche il clone di Berlusconi – ottenuto non in laboratorio come la pecora Dolly ma per ereditarietà concordata –, ne hanno seguito le orme, personalizzandolo fin quanto possibile, in base alle proprie capacità intellettive. Poi con classico sistema a catena, in ogni parte d’Italia, dalle Regioni al più piccolo Comune, ecco che sono spuntate comparse di un teatro dove la popolarità di un giorno, massimo due, non si rifiuta a nessuno.
Il record delle comparsate spetta di diritto agli amministratori locali delle formazioni citate ma, vista la validità sul piano della comunicazione, ha indotto anche qualche altro Presidente di Regione a imitare lo stile di marca leghista in chiave molto soggettiva, riportando un successo tanto grande da divenire uno degli ormai abituali personaggi del bravo Crozza: In Campania c’è l’obbligo di indossare la mascherina fuori casa e ci sono sanzioni per chi non lo fa. Chi non la indossa è una bestia. O ancora: Se vediamo nelle pubblicità belle ragazze toniche che corrono con i vestiti aderenti sono cose che ti consolano, ma ho visto vecchi cinghialoni della mia età che correvano senza mascherine. Lontani, invece, i tempi di RAI 3 la più grande fabbrica di depressione al mondo! Puttanate incredibili! Voi vi sintonizzate su RAI 3 e avrete atti di camorrismo giornalistico, di aggressioni personali, di imbecillità, in riferimento alla trasmissione Report.
Quando il linguaggio aggressivo, l’espressione sempre incazzata – da grande attore italiano, ha tempi di recitazione meravigliosi, ha sostenuto Carlo Verdone nel corso di un’intervista – diventano strumentali, graditi a quanti ritengono i toni e le espressioni utilizzate necessarie a gestire un gregge, è ben chiaro l’obiettivo di riscuotere consenso. E, se si votasse il prossimo mese di luglio – come auspicato dall’interessato –, i risultati sarebbero più che lusinghieri.
Eppure, la stessa strategia, più volte collaudata anche in tempi recenti, non sempre produce uguali risultati: al di là del linguaggio e del come parla bene, la presunzione, l’arroganza, la sicurezza ostentata talvolta non portano da nessuna parte, nemmeno recitando il doppio ruolo di governo e di opposizione, come accaduto giorni fa in Parlamento al clone di Berlusconi, quel Matteo Renzi che con la sua frase infelice – se i morti di Bergamo e Brescia potessero parlare, ci direbbero di ripartire anche per loro – ha tentato di ingraziarsi piccoli, medi e grandi imprenditori, sempre da quel poco più del 2%, ma con la capacità di essere una mina vagante del governo Conte e di deciderne le sorti.
Nell’agosto scorso, il Sole 24 Ore pubblicò un libretto, venduto insieme al giornale, dal titolo Chi l’ha detto, una sorta di indovinello su 266 frasi di Salvini e Di Maio per scoprirne la non sempre facile paternità poiché, sebbene ciascuno abbia un suo linguaggio, in molti casi questo viene adattato per l’occasione, diventando talvolta quasi un gioco a parti invertite. C’è da ammettere che Matteo Salvini, nonostante i voli pindarici tra invocazioni di chiusure e aperture, resta comunque il personaggio che sa usare meglio la comunicazione perché in grado di adeguare al suo pubblico, quasi sempre lo stesso, ma ondivago a seconda dei momenti storici. Consapevole che oggi produce maggiormente parlare di problemi interconnessi con la pandemia anziché dei migranti, attento però a tornarci quando serviranno di nuovo. E se non tirano più le aperture o le chiusure, allora è meglio fare battaglia per consentire le messe.
E se tutta la scena è occupata dall’onnipresente Salvini, ecco che la Giorgia nazionale, oltre a oltraggiare il Presidente del Consiglio, sbraita contro l’Europa. Ma non solo, va più in alto, contro la Cina – di cui, mi chiedo, se un solo componente del governo sappia chi mai sia la Meloni –, il tutto utilizzando un linguaggio e movimenti facciali ormai entrati a far parte delle migliori GIF sui social.
Sebbene il politichese tipico della Prima Repubblica fosse un linguaggio eccessivamente ricercato, evasivo, talvolta astratto, divenendo anche uno dei motivi di frattura e di allontanamento degli elettori dai partiti, non fu mai strumentale e qualunquistico per cogliere il peggio della base sfruttandone ogni genere di odio giocando sulla paura. I tempi per sconfiggere il Berlus-virus, lo abbiamo detto spesso, sono ancora lontani, ma – ne saranno contenti i no vax di professione – non occorre nessun vaccino. Occorre, invece, una cura lenta ma sempre efficace: credere e attuare la nostra Costituzione in tutti i suoi aspetti. Non serve modificarla, ma finalmente attuarla con serietà, senza isterismi e sceneggiate di cui abbiamo piene le scatole.