La storia non cambia se tu non la cambi. Ci sono frasi che andrebbero ripetute come un mantra, un insegnamento da portarsi dietro per non dimenticare, per non ripetere errori e orrori di un passato che è sempre presente. L’eterno ritorno dell’uguale: Nietzsche lo chiamava così. La Liberazione, in Italia, ne è l’espressione più emblematica. Per qualcuno è una festa divisiva, per qualcun altro è il ricordo di un sacrificio importante quanto la vita. Divisivo, invece, è l’intento di chi vorrebbe cancellarne la memoria per pura sopraffazione. Per puro fascismo.
Ogni anno, la Liberazione scatena polemiche, ogni anno si fanno insistenti le voci di chi vorrebbe metterne a tacere le celebrazioni. Un tentativo mal riuscito, da parte delle destre mai dome nel Bel Paese, di far parlare di sé, di tornare in auge sporcando la memoria di chi quelle stesse destre le ha combattute sul campo per permetterci di costruire un mondo migliore. Un mondo che, tuttavia, non siamo ancora in grado di pensare. Un mondo che, forse, non realizzeremo mai.
La storia non cambia se tu non la cambi. E noi abbiamo smesso di cambiarla, come se fosse un’entità astratta, qualcosa di indipendente dalla nostra volontà ma non lo è, non lo è mai stata. Ecco perché ricordare, ripetere a se stessi e agli altri cosa è stato il fascismo, cosa ha significato e cosa è ancora oggi, nella democrazia ritinteggiata dei nostri tempi, ha un valore fondamentale. È un diritto e un dovere di cui non possiamo e dobbiamo privarci. Perché se soccombere è un attimo, rinascere richiede uno sforzo e un tempo maggiori, a cui non siamo più abituati, a cui non siamo più pronti, a cui non riusciremo ad adattarci mollando tutto, la comodità di un capitalismo che ci ha risucchiato al punto da non scorgerne quasi i tratti dittatoriali e liberticidi.
Settantacinque anni, oggi, da quel 25 aprile sembrano tanti e, invece, sono una manciata di leggi emanate e di diritti soppressi. Ora e sempre Resistenza, cara Italia. Perché il fascismo non è morto, non muore mai. Cambia soltanto d’abito.
Una nera nostalgia
I conti con il nostro passato non li abbiamo mai fatti, non davvero, a partire dalla storia dell’Italia neoliberata che si è lentamente riappropriata di quelle istituzioni che avevano avuto genesi durante il Ventennio. Non è difficile avvertire tuttora l’ideologia di quella dittatura che ha segnato le nostre orme, una presenza palpabile nella politica di adesso, nelle discriminazioni quotidiane, nelle tradizioni e addirittura nella lingua.
Non serve cercare linee sottili tra le colpe del presente e gli errori del passato. I fascisti esistono e hanno un nome, hanno addirittura dei partiti e pianificano – persino in questi giorni – di marciare contro la Liberazione. Spacciandosi paradossalmente per liberatori dalla dittatura sanitaria di cui amano twittare, si appellano a un’Italia affaticata per svincolarla dalla gabbia, per svegliarla dall’illusione. E, come ciliegina su quella torta inacidita, fanno appello al tricolore, al patriottismo, a un nazionalismo feticcio e stantio che fa capolino solo quando c’è da discriminare un intruso – magari un cinese che porta un virus – o, come in questo caso, da trasgredire a qualche scomoda legge.
Il fascismo, il nemico del 25 aprile, oggi scende in piazza e si prende gioco della Liberazione sfidandola su quel terreno che ora lei non può calpestare. In qualche modo, però, marcia anche lei, con passi fatti di parole e di azioni, rappresentando quella parte di Italia – e di mondo – che ancora combatte quel mostro duro a morire.
Lega
Per anni al governo al guinzaglio di Silvio Berlusconi, passata al comando grazie a un compiacente M5S, la Lega di Matteo Salvini, in soli 461 giorni del primo mandato Conte, ha dettato da subito l’agenda di governo rivelando la sua reale essenza di partito di estrema destra.
Grazie a un Premier fantasma e a un alleato di governo accondiscendente, il felpato ha mostrato i muscoli attraverso quel Ministero dell’Interno raramente frequentato e attraverso il quale ha impostato tutta la propaganda di odio con il consenso di quelle forze estreme di ispirazione nazifascista in barba alla Costituzione repubblicana che ne vieta esplicitamente l’esistenza.
Sono bastati soltanto 461 lunghi interminabili giorni per agitare appena lo spauracchio immigrazione che in verità ha funzionato accrescendo il consenso, grazie al terrorismo mediatico attraverso la rete e l’informazione di comodo. Non ultima, la sua indubbia capacità di tirare fuori il peggio di tanti italiani. Un odio covato per anni, un cordone ombelicale mai reciso con il Ventennio di triste memoria.
Un anno, tre mesi e quattro giorni tra cambi di felpe, preferibilmente della Polizia – mai della Guardia di Finanza –, con un una strategia muscolare mai casuale, adatta ai tempi che tristemente viviamo, dove occorre mostrare un nemico, che sia un immigrato, un uomo di colore, uno zingaro, un omosessuale, una lesbica, comunque ritenuto un diverso, meglio tra l’ostentazione di un rosario o un crocifisso mostrati come amuleti.
Fascismo all’amatriciana, acqua passata direbbe qualcuno, certo come quella parte di generazione dei nostri padri ancora nostalgica definiva il Ventennio: un fascismo all’acqua di rosa. Acqua putrefatta ancora maleodorante che ancora emana tutto quel fetore insopportabile dal quale ci siamo liberati.
Caporalato
Tra i fascismi odierni per i quali sarebbe necessaria una nuova liberazione rientra sicuramente lo sfruttamento dei migranti, vittime del caporalato, quel mostro che miete vittime quotidianamente sotto lo sguardo indifferente dei più. A un passo dalle nostre tiepide case e dalle nostre tavole imbandite, ci sono campagne per la cui coltivazione vengono utilizzate braccia forti e volenterose, quelle stesse braccia su cui abbiamo così da ridire quando arrivano dal mare. Non mi pare si tratti di uomini malnutriti o che rischiano di morire nel loro paese: quante volte questa frase ha affollato gli schermi dei nostri smartphone, accompagnata a immagini di uomini e donne apparentemente in forza.
Avalliamo una forma di schiavitù contemporanea che ha il volto di un padrone che tiene incatenati i propri servitori con lo spettro della povertà e spesso del rimpatrio. La liberazione, dunque, dovrebbe riguardare le persone, le forme di giustizialismo e l’approssimazione nell’approcciarsi ai problemi altrui, così da abbandonare la falsa consapevolezza di sapere come stanno gli altri, cosa rischiano, cosa li spinge ad affrontare il mare e, infine, cosa li rende schiavi del nostro sistema capitalista e senza scrupoli.
La democrazia degli antidemocratici
Per insegnarci la differenza tra fascismi e democrazia viene spesso tirato in ballo il concetto di libertà di espressione. Quello che in un regime totalitario viene represso con la forza, in democrazia si può dire liberamente. Mentre in democrazia raccontiamo il mondo in un caleidoscopio di sfumature, il fascismo permette un solo punto di vista: quello stabilito dalla propaganda di regime. Questa è una semplificazione che sottende una serie di cose, tra cui l’assunto che un sistema che supporti la libertà di espressione sia sempre democratico.
Alla fine degli anni Ottanta, il linguista Noam Chomsky introdusse il concetto di Fabbrica del Consenso in un libro omonimo, che pubblicò insieme all’economista Edward S. Herman. La fabbrica del consenso è il modo in cui l’informazione che crediamo libera, in realtà, manipola e orienta le masse verso un pensiero condiviso dai potenti. Si tratta di una specie di piovra i cui tentacoli svolgono ciascuno una diversa funzione: l’intrattenimento serve a ottundere la capacità di reazione, gli schermi televisivi a isolare le persone, la stampa a diffondere solo le notizie ritenute degne di essere diffuse. Oggi, la fabbrica del consenso è un sistema talmente esteso e radicato da non essere neppure più sempre pienamente consapevole di se stesso.
Come uscire, allora, dall’illusione e ritrovare le nostre voci democratiche? Diffidare da chi offre soluzioni facili a problemi complessi ed esercitare la nostra facoltà di porci domande. Allenare il senso critico come se dovessimo esibirlo alla prova costume e non chiuderci in noi stessi.
Libertà di stampa
Possono essere definiti in tanti modi: fascisti, neofascisti, movimentisti di estrema destra, nostalgici del Ventennio. Il risultato non cambia perché parliamo sempre di chi inneggia in un modo o nell’altro al più brutale regime totalitario a cui la storia abbia assistito.
Fra i tanti elementi che accomunano i fascisti – sia vecchi sia nuovi, ammesso che poi ci siano differenze – è il loro rigurgito verso l’informazione, per lo meno verso coloro i quali, adempiendo al dovere di cronaca e riconoscendo i principi costituzionali, raccontano i legami tra fascisti e criminalità organizzata: si pensi alla testata che il giornalista Daniele Piervincenzi subì da Roberto Spada, appartenente al celebre clan di Ostia; alle aggressioni ai danni della troupe de L’Espresso da parte di esponenti di Forza Nuova e Avanguardia Nazionale. E, ancora, ricordiamo il blitz di Forza Nuova sotto la sede di la Repubblica a dicembre del 2017, le recenti intimidazioni al fondatore Scalfari e all’ex direttore Verdelli.
Atteggiamenti perfettamente in linea con la posizione di Mussolini che nel 1928, davanti a settanta direttori di quotidiani presenti a Palazzo Chigi, affermò che in un regime totalitario, come dev’essere necessariamente un regime sorto da una rivoluzione trionfante, la stampa è un elemento di questo Regime, una forza al servizio di questo Regime; in un Regime unitario, la stampa non può essere estranea a questa unità. L’unica cosa a cui noi ci sentiamo estranei sono i rigurgiti fascisti di chi è allergico alla libertà, all’informazione. Insomma, alla democrazia.
Censura
I nuovi fascismi hanno sempre avuto un rapporto particolarmente stretto con la censura, il perfetto cappio al collo delle arti visive e di quelle letterarie. Gli anni trascorsi, gli errori compiuti, non sono serviti: la storia si è ripetuta troppo spesso e affonda le sue radici in un passato ancora più lontano, dove Hitler e Mussolini non esistevano nemmeno. Lo scopo non è mai cambiato: nascondere, mettere a tacere, evitare la diffusione di certe informazioni, perché la conoscenza, strettamente legata al libero pensiero e quindi, di conseguenza, alla realizzazione di sé attraverso le arti, può essere una minaccia nei confronti di persone a cui quella libertà sta scomoda. Ogni opera d’arte è autentica e allo stesso tempo rivoluzionaria perché appunto, rinnova, la coscienza di chi guarda/ascolta/legge. Quando l’arte stravolge l’ordine delle cose, ecco che interviene questo nuovo, vecchio fascismo, la censura.
L’Onda
Sarebbe possibile, nella nostra società contemporanea, cadere nuovamente nella trappola del totalitarismo? Ha provato a rispondere il film tedesco del 2008 L’Onda (Die Welle), diretto da Dennis Gansel e tratto dall’omonimo romanzo di Todd Strasser, a sua volta incentrato su un reale esperimento californiano degli anni Sessanta.
Un professore di liceo vuole mostrare alla sua classe i meccanismi della nascita di strutture sociali autoritarie a seguito dell’assoluta certezza, da parte degli studenti, di essere immuni a nuove dittature, visti gli errori del passato. Decide dunque di ricreare un regime dittatoriale basato su leggi ben precise: disciplina, rigore, omologazione, isolamento di eventuali oppositori. Inutile dire che le conseguenze saranno impreviste e devastanti.
La storia è decisamente attuale e indaga l’espansione di un regime e l’indottrinamento malato di una popolazione. Soprattutto, gli effetti di tali esperienze sulle nuove generazioni che si sentono “vaccinate” poiché consapevoli. Per usare le parole dello stesso Gansel, è proprio questo il pericolo più grande. È interessante osservare come si pensi sempre che cose del genere succedano agli altri e non a noi. Si incolpano gli altri […] Ma nel Terzo Reich il portinaio era affascinato dal movimento nazista tanto quanto l’intellettuale. Le cause, esposte anche nel film, sono globalizzazione, crisi economica, nazionalismo, xenofobia e ingiustizia.
All’epoca si cercavano consensi con manifestazioni eclatanti, cinema e musica, così come oggi si userebbero i social. È il concetto di un’ideologia all’apparenza innocua, basata su semplici simboli di appartenenza come unità, forza, uno scopo e un nemico comuni e validi per il sacrificio delle libertà individuali. Come ci ha insegnato Hannah Arendt in La banalità del male, il male non è demoniaco ma si diffonde come un fungo e riguarda tutti.
La modernizzazione del totalitarismo
Ben venga, amici lettori, il 25 aprile di quest’anno! Più che mai utile agli abitanti del Bel Paese per la celebrazione del 75° anniversario della Liberazione dal dominio nazifascista ma, soprattutto, per riflettere sul tradimento continuo delle sue premesse di libertà e democrazia. Dai tempi dell’originario disegno costituzionale repubblicano e democratico, il fascismo non è mai scomparso, ma ha soltanto dismesso la divisa della militanza repressiva per indossare il vestito buono della democrazia e continuare ad agire nel sottobosco del malaffarismo economico-politico e sociale.
Pier Paolo Pasolini ce lo aveva raccontato, quasi in tempo reale nella prima metà del secolo scorso, parlandoci dell’Italia dello sviluppo (materiale) senza progresso (culturale), passata dalla società tradizionale a quella dell’industria e dell’urbanizzazione, dove si vive nella “gabbia dorata” definita dal poeta come penitenziario del consumismo.
In tempi più recenti e con uno sguardo al sistema-mondo, è stato Zygmunt Bauman a riflettere sui processi di individualizzazione e di modernizzazione dell’età contemporanea e sugli inganni della globalizzazione – sempre più economica e meno culturale – soprattutto nel saggio Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi. Gli esseri umani vivono secondo le logiche del mercato, in una società dove la pasoliniana omologazione dei valori viene spacciata per emancipazione sociale.
Di fronte all’homo consumens vi è l’homo sacer, il povero estromesso dal gioco societario, in quanto consumatore difettoso. Per giunta, la miseria degli esclusi non è più considerata un’ingiustizia del sistema, ma una colpa individuale e le prigioni prendono il sopravvento sul welfare e sul tentativo di costruire una società più giusta.
Questo è il fascismo eterno, silenzioso ma “virale”, presente perfino dentro chi lo detesta. Passata la pandemia, quindi, sarà vitale non tornare più a quella “normalità” che ci fa pensare più alle cose che agli esseri umani e che ha prodotto le crisi morale, ambientale e socio-sanitaria dei nostri tempi.