Le copertine delle edizioni economiche di Madame Bovary negli ultimi quarant’anni hanno spesso attinto ai ritratti di Jean-Auguste-Dominique Ingres quali Principessa de Broglie o anche Contessa d’Haussonville. Entrambe indossano vesti di tonalità blu. Queste due protagoniste, a differenza di Emma Bovary, sono aristocratiche e lo sfarzo che i dipinti mettono in scena è lontano dai costumi della vita di provincia. La de Broglie è blu per censo, Emma Bovary si veste di blu per imitarla, convincendosi di abitare un benessere da cui, di fatto, è esclusa.
Nei dipinti di Ingres sono ben visibili i segni della ricchezza: drappeggi sontuosi e scintillanti, bagliori dorati, pietre preziose. Il ritratto della de Broglie ha una composizione classica, con la protagonista posta al centro che occupa lo spazio formando una piramide, come nei dipinti delle Madonne, solo che nella Vergine è presente un distacco ieratico, qui invece ha un valore profano: il prestigio. Nel dipinto ci sono alcuni elementi che fanno riflettere e che non sono immediatamente rintracciabili: la mano che si protende verso di noi è bianca e curata, così come le unghie e i capelli ben lucidi e puliti; inoltre il quadro non rappresenta semplicemente una figura di donna. Con la fotografia i ritratti vengono considerati, quasi sempre, la raffigurazione psicologica del soggetto, quello della de Broglie, invece, è anche l’effigie di un uomo, come scrive Riccardo Falcinelli nel suo Cromorama: con un po’ di cinismo potremmo dire che questo non è un ritratto ma una natura morta e, come nei dipinti che mostrano tavole imbandite con conigli e fagiani, qui un ricco uomo politico mostra ciò che può permettersi: una bella casa, tessuti, gioielli e… una donna.
L’idea di Ingres, in questo dipinto, è quella di raccontare il potere mettendoci in soggezione, perché noi guardiamo il quadro, ma il nostro sguardo non è affatto ricambiato, la donna guarda oltre, ci guarda attraverso. Questa rappresentazione è un’invenzione brillante per l’epoca e diventerà uno standard nelle foto di moda dove tutte le modelle sono altere e distaccate. Oggi vedere una donna indossare un abito blu non ha lo stesso significato di un tempo perché nel 1853 tingere una stoffa di quel blu è un procedimento difficile e costoso. Ingres, così come il suo pubblico, questo lo sa bene. Il colore comunica, giudica, gerarchizza. L’abito è blu, la poltroncina è gialla: si tratta del contrasto goethiano più alla moda.
Emma Bovary non sogna Parigi, ma una città più vicina e raggiungibile, Rouen, nell’alta Normandia. È a Rouen che si incontra col suo secondo amante ed è a Rouen che assiste a teatro a un’opera lirica, la Lucia di Lammermoor, in una scena importante per l’economia del romanzo, scrive ancora Falcinelli. E quando Emma entra in loggione, Flaubert scrive che nella sala alcuni spettatori stanno parlando di un colore ed è l’indaco. Rouen non sembra proprio scelta a caso, è uno dei centri più importanti per la tintura dei tessuti in indaco e blu, con volumi di affari imponenti. Questa è l’altra faccia del blu romantico, un colore che va di moda e pilastro del benessere della borghesia cittadina. Vestirsi di blu diventa quindi una rivendicazione di sensibilità lirica, di gusto, ma all’epoca significa innanzitutto poterselo permettere. L’entrata in scena di Emma con il suo vestito di lana è un manifesto programmatico: il blu Bovary è spirituale, anticonformista e di classe.
Centocinquant’anni dopo i valori cromatici del blu romantico vengono riutilizzati nel prodotto della Walt Disney del 1991, La Bella e la Bestia. Belle, la protagonista, è un doppio ribaltato di Emma Bovary: la ragazza francese di provincia accetta di trovare del buono in suo marito fino ad assistere alla sua trasformazione in principe azzurro – che è anche un tipo di blu. Il plot settecentesco viene perfettamente rispettato, tuttavia sposta l’asse su una contrapposizione diversa, molto disneyana: quella tra natura e cultura. Belle è la portatrice di ideali urbanizzati contrapposti alla rusticità del villaggio in cui è nata e la crudeltà della Bestia. Il film di animazione inizia proprio con Belle che passeggia cantando nel suo villaggio, case e abitanti sono nei toni del marrone, dell’ocra e del bordeaux, lei invece è vestita di blu. La citazione del modello romantico non è casuale, infatti anche il libro che porta con sé è blu, ma questa volta non si tratta solo di avere un animo sublime, il colore diventa simbolo di diversità di cui andare fieri. I personaggi Disney, a inizio anni Novanta, hanno proprio questa forte caratteristica: di essere se stessi, sempre.
Nella scena in cui la Bestia invita Belle a cenare insieme, lui indossa una giacca blu e un panciotto giallo à la Werther, lei invece ha un vestito giallo, luminoso, razionale, civilizzante. Per la giovane non si tratta soltanto di riuscire a domare la Bestia, ma anche arginare le pulsioni romanticheggianti che la tengono staccata dalla vita vera. Il suo maturare consiste nel mutare l’illusione letteraria in pragmatismo, mitigando il blu Bovary con il giallo della concretezza, conciliando quindi razionalità e sentimento. La Bestia potrà tornare umana soltanto dopo che la trasformazione interiore di Belle sarà attuata.
Sono sei i personaggi che vestono di blu – e spesso in relazione con il giallo, – Werther, Emma, la principessa de Broglie, la contessa d’Haussonville, la Bella e la Bestia. È anche vero che Goethe, Flaubert, Ingres e Disney evocano tinte tra loro molto differenti: la de Broglie ha un abito azzurro, la contessa invece ceruleo, Belle cobalto, e non si sa se l’abito della Bovary sia blu marino oppure zaffiro. Fermo restando che azzurro, cobalto, ceruleo appartengono alla nostra cultura alla categoria della bluezza, è Flaubert che, ben attento alla lingua, decide di utilizzare sempre lo stesso vocabolo, blu.
Werther veste di blu come metafora spirituale. La de Broglie per mettere in scena lo sfarzo del privilegio. Emma è la piccola borghese che vorrebbe imitarla, ma quel blu la disorienta e, da perfetta romantica, confonde la propria minorità sociale con un vuoto dell’animo. Belle si veste di blu per un’eccentricità di cui va fiera; la Bestia perché coltiva un animo wertheriano o perché, in fondo, è un principe azzurro in incognito. Il blu li accomuna: è un modo di stare al mondo e di occupare lo spazio iconografico. In maniere diverse sono tutti personaggi borghesi e della borghesia incarnano i conflitti. Vestirsi di blu è più che altro un “non” vestirsi di grigio: la paura moderna di essere invisibili, di non lasciare traccia. Provare a salvarsi attraverso un vestito che ci rappresenti, puntellando la nostra identità attraverso il consumo di cose, nel timore di voltarci indietro e accorgerci di aver condotto una vita inutile.