Nei giorni di tensione che hanno preceduto l’emergenza, quando gli istituti scolastici erano ancora aperti e le attività economiche in produzione, il possibile arrivo di certe disposizioni rappresentava il punto di non ritorno che preoccupava più o meno tutti, chi per le conseguenze che avrebbero generato, chi per le cause che lo avrebbero scatenato. E quando durante quei primi giorni di marzo la chiusura delle scuole è stata annunciata, la popolazione si è divisa in giovani felici di saltare il compito in classe previsto per l’indomani e in tutti gli altri, consci che interrompere la regolare didattica fosse un segno della gravità della situazione.
Non ci è voluto molto perché anche gli studenti cambiassero opinione. Chi preoccupato per l’esito dell’anno scolastico e chi troppo triste lontano dagli amici, gli alunni italiani sono stati messi di fronte a un sfida piuttosto grande: studiare, imparare e farlo bene ma da casa, senza quel piacevole contatto quotidiano con chi è inevitabilmente sulla stessa barca. Alla loro guida, una flotta di insegnanti che ancora cercava di capire come utilizzare il registro elettronico – divenuto obbligatorio da qualche anno – e che improvvisamente si è trovata alla deriva in un mare di app per le videochiamate, nuovi metodi per spiegare il programma e la stessa classe di sempre, ma in formato digitale.
L’emergenza coronavirus ha certamente messo alla prova ingegno e pazienza, e la tempestività con cui alunni e insegnanti si sono messi a lavoro è ammirevole. Nei primi giorni, la didattica a distanza ci sembrava una scoperta sensazionale alla quale si sperava di non dover ricorrere troppo a lungo, ma ora che più di un mese è passato e il resto del mondo ha iniziato a fare lo stesso, è inevitabilmente giunta la consapevolezza di doverci abituare a queste nuove forme di apprendimento, in vigore per chissà quanto tempo ancora. Intanto, sono partiti da ogni parte i pareri e gli studi sulle criticità della scuola digitale, che molto spesso approssimano il problema alle colpe della tecnologia, apparentemente ignari del fatto che, senza di essa, sarebbe impossibile portare a termine l’anno scolastico. Esempio calzante è la ricerca australiana recentemente pubblicata secondo cui gli adolescenti in quarantena, vittime degli schermi, dormono di meno e hanno una scarsa attenzione, come se l’isolamento non facesse questo stesso effetto su tutti o gli strumenti utilizzati non nuocessero a prescindere.
Più problematiche, in Italia, sono sicuramente le norme tra le quali scuola e insegnanti devono barcamenarsi, come le tempistiche delle autorizzazioni necessarie per svolgere la didattica a distanza: una video lezione, infatti, permette di entrare nelle case degli studenti e il consenso dei genitori è giustamente necessario. Ma le lezioni sono iniziate immediatamente, mentre le liberatorie sono arrivate solo la settimana scorsa. Grande disorganizzazione, insomma, in aggiunta ai problemi più ovvi, quali l’impossibilità di tenere l’attenzione di una classe più di 20 o 30 minuti in assenza di uno scambio personale, soprattutto con gli allievi più piccoli, e gli orari che diventano indefiniti anche per gli insegnanti, ormai sempre reperibili per spiegazioni e correzioni. Diventa inoltre difficile valutare gli studenti, non tanto per decretarne le valutazioni, quanto per rendersi conto del reale andamento dell’insegnamento per non rischiare di lasciare indietro qualcuno. Risulta complicato, infatti, determinare il rendimento solo sui compiti assegnati per casa e consegnati in seguito, e risulta impossibile garantire la totale affidabilità delle verifiche.
Al di là della riuscita dell’iniziativa – indubbiamente i programmi, i compiti e gli stessi metodi di insegnamento non erano preparati a un tipo di didattica in formato digitale – il lavoro della scuola si è fatto più difficile ma resta di fondamentale importanza. D’altronde, nei giorni di paura, vengono fuori tutti i difetti che l’umanità tiene in serbo proprio per questi momenti, come la tendenza ad abbandonare il buonsenso e a credere alle più disparate e insensate teorie del complotto. E se congiure mondiali e antenne 5G sono sulla bocca di tanti, il mondo dell’istruzione si ritrova sulle spalle un compito ancora più arduo: fornire ai giovani di oggi le armi per comprendere meglio il mondo perché non reagiscano alle emergenze imboccando la via più facile. Ma mentre la scuola dell’obbligo resta un servizio di prima necessità, un diritto e un dovere, un’attività che proprio non può chiudere così come non possono chiudere il panificio e la farmacia, purtroppo nella sua versione digitale non è garantita a tutti.
Il sempreverde digital divide, infatti, durante l’emergenza coronavirus si è ripresentato in una nuova veste. Nato negli anni Novanta, quando gli utenti di internet nel mondo erano solo 2 milioni, il divario digitale è la differenza di opportunità tra le persone che hanno accesso alle tecnologie dell’informazione e chi, per motivi di varia natura, ne è escluso. Oggi, che gli utenti sono 5.11 miliardi, la differenza tra i connessi e gli analogici si fa più profonda. In effetti, l’accesso a risorse illimitate che il web potenzialmente consente, rappresenterebbe un enorme fattore di uguaglianza e di democrazia, se solo il divario sociale non tenesse lontano una buona fetta della popolazione mondiale. Ora, però, non avere accesso alle tecnologie dell’informazione – che riguardi i supporti tecnologici o la connessione necessaria – significa anche non avere accesso all’istruzione, uno di quei diritti che l’Italia dovrebbe garantire ai suoi cittadini.
È vero che lo Stato ha distribuito dei fondi perché ogni scuola abbia degli strumenti da fornire agli studenti in maggiori difficoltà economiche, ma non sempre una connessione internet è disponibile e quasi mai, a dirla tutta, i fondi bastano. Alle scuole di Napoli, per esempio, sono stati elargiti soldi per acquistare tablet per circa il 5% degli studenti, una cifra irrisoria, soprattutto per gli istituti con le percentuali di reddito più basse. Come possono 40 tablet colmare il divario digitale di un istituto con 900 studenti? Non possono e, di certo, la colpa non è del coronavirus, perché se a colmare il divario digitale – o a rendere più robusta la sanità, o a rimediare alla violenze domestiche – si fosse pensato prima, sarebbe stato più semplice e meno dispendioso affrontare tutto questo adesso.
Per ora, ogni scuola si prenderà carico degli studenti rimasti indietro, così come ogni famiglia affronterà il problema di un anno scolastico probabilmente perduto. E, inevitabilmente, ogni studente, anche se ancora ignaro, dovrà affrontare le conseguenze di un lungo periodo di formazione zoppicante che influenzerà le sue scelte da adulto e le sue possibilità nella vita.