La scrittrice Rebecca Solnit è stata definita dal giornale The New York Times come la voce della resistenza, per la sua capacità di leggere e interpretare la realtà sociale e politica, al di là della narrazione dominante che spesso coinvolge perfino le voci della critica più autorevole al neoliberismo che governa il mondo. Il recente saggio Chiamare le cose con il loro nome. Bugie, verità e speranze nell’era di Trump e del cambiamento climatico (Ponte alle Grazie, 2019) ne è una prova notevole perché coglie la necessità etica di fare attenzione alla comprensione e all’uso delle parole che descrivono i fatti, nell’epoca della comunicazione iperconnessa, immediata e globale.
Rebecca Solnit (Bridgeport, 1961) si occupa di giornalismo, politica, ambientalismo e femminismo. Ha pubblicato, inoltre, diverse opere anche sull’arte, la letteratura e sulle esperienze di viaggio. Tra i titoli più noti, Storia del camminare (2002) e Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo (2005). Articoli e saggi della scrittrice statunitense sono apparsi anche su Harper’s Magazine e The Guardian e Chiamare le cose con il loro nome ha vinto il Premio Kirkus 2018 per la saggistica.
Prendendo lo spunto dalla personale narrazione della realtà e dei valori dell’America fatta da Donald Trump – che influisce, in effetti, su quella dell’intero sistema-mondo – la Solnit ci parla delle ingiustizie economiche e sociali, per esempio, in una fase della storia umana dove la forbice tra i pochi ricchi e i molti poveri della società si allarga sempre di più. E ci fa riflettere sul negazionismo di fronte al problema del cambiamento climatico e all’attivismo degli ambientalisti che, di recente, sono stati definiti profeti di sventure proprio dal Presidente degli Stati Uniti.
La scrittrice e attivista americana si sofferma, in particolare, sugli accadimenti che appaiono meno eclatanti nella cronaca dell’attualità che domina la comunicazione all’interno della debordiana società dello spettacolo ma che segnano, invece, la direzione del cambiamento sociale e politico. Con il termine gentrificazione, ad esempio, viene indicato l’insieme dei cambiamenti urbanistici che avvengono in una determinata area urbana che era abitata fino a pochi decenni prima dalle famiglie della working class, quando gruppi appartenenti agli strati sociali benestanti ne acquistano gli immobili, determinando notevoli sconvolgimenti esistenziali, sociali e più ampiamente culturali.
In un saggio precedente, A Paradise Built in Hell: The Extraordinary Communities that Arise in Disaster (Un paradiso all’inferno, Fandango 2010), l’autrice descrisse un fenomeno importante: ciò che accade nel tessuto sociale e nel comportamento degli individui quando avvengono disastri. L’analisi fu richiamata all’attenzione pubblica quando l’uragano Katrina investì la costa del Golfo degli Stati Uniti provocando immensi danni alle cose e soprattutto alle vite dei cittadini in una vasta zona geografica. La Solnit analizzò il fatto e il suo uso da parte della governance e ne trasse una sintesi efficace: ciò che accade in occasione dei disastri dimostra tutto quello che un anarchista abbia mai voluto credere sul trionfo della società civile e sul fallimento dell’autorità istituzionale.
Un altro esempio importante delle capacità analitiche e descrittive della Solnit è contenuto in Gli uomini mi spiegano le cose (Ponte alle Grazie, 2017), una raccolta di saggi che riguardano episodi di mansplaining, un termine che indica una modalità maschile paternalistica di usare il linguaggio. La prosa della scrittrice statunitense qui illumina alcuni comportamenti irrazionali e folli della società maschilista – espressione moderna dell’ancestrale cultura patriarcale –, adottati dagli uomini nei confronti delle donne quando pensano di sapere cose che le donne non sanno, innescando i meccanismi della sopraffazione che partono da una banale conversazione, socialmente accettata perché ritenuta un esempio del senso comune, per arrivare fino alla violenza fisica.
L’opera saggistica di Rebecca Solnit, pensatrice indipendente e autorevole, fa emergere dalle ombre della vita quotidiana le parole e gli accadimenti decisivi del presente e del prossimo futuro. Chiamare le cose con il loro nome, assieme agli altri testi dell’autrice americana, ci racconta come le disuguaglianze economiche e sociali, le discriminazioni, la violenza razziale e di genere si rintraccino proprio in quegli eventi interni alla vita sociale di cui si parla in tono minore e a fianco della narrazione societaria dominante, spesso piena di bugie ma in grado di esercitare il potere di vita o di morte nell’arena comunitaria.
Dalle parole ai fatti, insomma, fino ai cambiamenti reali, determinanti per le vite delle persone coinvolte. La verità sull’esistenza dei cittadini è nascosta e i mutamenti più importanti accadono senza che essi ne abbiano consapevolezza. Fare attenzione, quindi, alle parole che raccontano i fatti è l’unica strada che si può percorrere, all’interno dell’iperconnesso mondo globalizzato, per dare spazio e voce alla speranza di un possibile cambiamento rispettoso dei bisogni degli esseri umani e della vita del pianeta.