Se potessimo esprimerlo a parole, non ci sarebbe motivo per dipingere. – Edward Hopper
Da sempre, l’arte è stata in grado di raccontare qualcosa che le parole non riescono a fare, di creare una comunicazione nuova e diversa. Ce lo ha ricordato il pittore Edward Hopper (Nyack, 1882-Manhattan, 1967), il maggior esponente del realismo statunitense.
Se sentite un tonfo provenire da chissà dove, non temete. Probabilmente sarà lui dalla tomba dopo che, per l’ennesima volta, è stata tirata fuori una sua opera da associare al tema della solitudine che, in qualche modo, si sta vivendo in questo periodo. Intendiamoci, non che sia falso percepire nei suoi dipinti, a un primo sguardo, una certa solitudine, ma si tratta di una visione superficiale dietro cui vi è molto di più.
La scena artistica americana del primo Novecento vedeva ancora un certo sospetto nei confronti delle opere del Vecchio Continente, sebbene mostre come l’Armory Show, a New York, contribuissero a dar voce a figure celebri ma all’epoca poco note, ad esempio Duchamp e Picabia. Forse è proprio questo il motivo per cui Hopper non ebbe, inizialmente, la fama che meritava. Grazie a numerosi viaggi nelle capitali europee, specialmente a Parigi, le sue prime opere furono influenzate dall’Impressionismo e da interpreti quali Manet, Pissarro, Degas, Cézanne, Courbet, Daumier, Toulouse-Lautrec. Ma già si delineava uno stile del tutto originale. Perché, piuttosto che recarsi in qualche scuola d’arte francese, Hopper preferì girovagare per le viscere della città, provando a carpirne l’essenza.
Una piccola svolta avvenne proprio all’Armory Show, nel 1913, dove vendette il suo primo dipinto, Sailing, per 250 dollari. Ma la vera sterzata che lo rese il pittore che conosciamo, ritrattista della quotidianità americana dell’epoca, fu nel 1923, quando conobbe colei che sarebbe diventata sua moglie e modella di ogni sua figura femminile: Josephine Verstille Nivison. Josephine era schietta, solare, espansiva. Hopper era scontroso, taciturno, chiuso. Il grande diverbio tra i coniugi è forse alla base della poetica del pittore, fino all’ultimo dipinto, Two Comedians (1965), in cui due figure che impersonano lui e la moglie salutano il pubblico ancora una volta, prima di morire entrambi due e tre anni dopo la realizzazione dell’opera.
Hopper disse sempre di dipingere non propriamente ciò che vedeva, piuttosto ciò che provava. Era il risultato di un’esperienza personale della realtà, che prendeva forma in quei soggetti urbani oramai tanto iconici: le strade, gli interni degli edifici, le architetture, le scogliere e le spiagge del New England. Si può dire che sia stato tra i maggiori artisti la cui estetica si è rivelata fondamentale per il cinema moderno, con composizioni e tagli fotografici perfetti per la macchina da presa. Guardando House by the railroad, opera del 1925 e oggi al MoMA, è quasi impossibile non riconoscere la casa di Norman Bates del celebre Psycho diretto da Alfred Hitchcock. Non hanno saputo resistervi neppure David Lynch, Ridley Scott, Dario Argento, il quale s’ispirò a Nighthawks per la realizzazione del Blue Bar che compare nella pellicola Profondo Rosso.
Proprio Nighthawks, o anche I nottambuli, rappresenta il suo capolavoro ufficiale nella cultura di massa. Mentre risuonava l’eco del Caffè di notte di Van Gogh, nel 1942 Hopper metteva in scena un locale immerso nella desolata New York notturna al cui interno si trovano quattro figure, tre uomini e una donna. Tra di loro non vi è alcuna interazione. È forse questo il motivo che ha spinto a vedere la solitudine come tema principale delle sue opere. I suoi soggetti non sono soli, sono alienati. Sono vuoti, assenti, quasi sopraffatti da una vita che sembra non appartenere loro. Non provano emozioni, persi in spazi spesso deserti, immersi nel silenzio di una situazione all’apparenza ordinaria e banale, ma che trasmette, all’opposto, un profondo senso di inquietudine. I colori sono brillanti, come in Second story sunlight (196o), eppure non infondono calore né vigoria.
La drammatica incomunicabilità tra i soggetti ci fa percepire che qualcosa non va, quasi come ci fosse un “oltre” che influenza l’interno dell’opera e che allo spettatore non è dato conoscere. Seppure Hopper avesse più volte chiarito che i suoi dipinti non sono frame di nessuna storia più grande, è praticamente inevitabile non fantasticare e non porsi delle domande: perché c’è un pagliaccio seduto al tavolo in Soir Bleu (1914)? Cosa sta guardando la donna in Western Motel (1957)?
Le donne di Hopper, numerosissime nella sua produzione, sono quasi sempre assorte nei pensieri, enigmatiche, in uno stato di perenne attesa. Forse i soggetti migliori per interpretare le sensazioni dell’artista. Fondamentale è la luce, dei neon e dei lampioni in Gas (1940), del sole che si abbatte sulle pareti di una casa in Morning Sun (1952) o in Rooms by the Sea (1951). Una luce di derivazione impressionista che contribuisce però a donare alle opere quell’aura di surreale e misterioso.
La sua produzione pittorica è vista, dunque, come una delle manifestazioni artistiche più travolgenti e particolari del XX secolo, andando oltre il contesto statunitense. Non a caso, Hopper è stato definito il pittore del silenzio, un silenzio a volte assordante, dove la solitudine è un concetto oramai limitato per lasciare il posto solo a un grande vuoto, a un’atmosfera sospesa. La potenza di un realismo in un certo senso metafisico. Un insieme di immagini chiare ed essenziali che riescono a far sentire lo spettatore tremendamente a disagio, senza sapere il perché. E forse, non serve saperlo.