Federica e io ci siamo conosciute al liceo, quando ciò che restava della sua classe e della mia sono stati accorpati creandone una nuova, stimolante, piena di teste pensanti. Tra queste, certamente quella di Federica, una ragazza solare, propositiva, piena di interessi e un’innata capacità di guardare sempre al lato positivo dei problemi quotidiani come della vita tutta. Per tale motivo – ma non solo – le ho chiesto di raccontarci la sua esperienza in quel di Milano, oggi che la tradizionale frenesia del capoluogo lombardo è stata di colpo messa in stand-by e la città si è svuotata dei tanti emigrati scappati quando la regione è stata dichiarata zona rossa. Federica, invece, ha scelto di restare, sola nel suo appartamento milanese, perché per la prima volta – ci confessa – ha sentito di essere un potenziale pericolo. Per sé e per gli altri.
«Cara Flavia,
vivo a Milano da quattro anni, ma a dirti la verità mi sembra da molto di più. Un monolocale di 32 mq al limite de la circumvalla – come la chiamiamo qui –, a poco meno di un km dal corso Sempione, trovato dopo svariati mesi di ricerca, quattro(mila) camicie sudate, innumerevoli sopralluoghi in stanze, buchi, appartamenti fatiscenti, e che a poco a poco negli anni ho risistemato secondo le mie esigenze. Quando mi hai chiesto di raccontare questo mio periodo qui durante il COVID-19, la prima cosa che ti ho detto, scherzando, è che non sono la tipica trapiantata a Milano che conta i giorni divisi dalla sua città natale e non sapevo se i miei pensieri potessero essere d’interesse ai più visto che forse mancano del pathos da emigrato.
Lo stereotipo dice che a un napoletano manchi tutto di Napoli quando va via, ma a me no, io non sento tutta quella tristezza della lontananza che la maggior parte dei partenopei prova. D’altronde, sono in Italia quindi non ho mai creduto di doverla sentire. La mia scelta di venire a vivere a Milano non è stata fatta con dolore, il mio era proprio un obiettivo, io volevo andare a Milano. E questa città deve averlo percepito perché fin dall’inizio non ha fatto altro che farsi conoscere da me, si è resa amabile, interessante, un posto sicuro, un posto dove restare. Non fraintendermi, amo molto le mie radici e sono molto orgogliosa di essere nata a Napoli, ma devo tanto a Milano: le devo la mia indipendenza, le devo la soddisfazione personale e professionale, le devo la libertà di pensare di poter raggiungere tutto quello a cui aspiro. Mi fido di Milano, a Milano mi sento al sicuro, sento che è una città che si fa presente nei problemi e mi tende la mano come può. E questa sensazione di sicurezza non mi ha mai lasciata nemmeno durante la pandemia. Sembrerà strano, dato che la Lombardia è la regione italiana più colpita, quella con più vittime, il focolaio da cui tutto è partito. Eppure…
Ce lo aspettavamo: ben prima del 21 febbraio, con i primi casi nel Lodigiano e i primi Comuni chiusi, eravamo convinti che a Milano il virus ci fosse già. È una città interculturale, veloce, piena di eventi e di persone di passaggio – solo tra gennaio e febbraio c’erano, per dire, il Capodanno cinese in Paolo Sarpi e la Fashion Week. I suoi mezzi pubblici sono frequenti eppure sempre affollatissimi poiché trasportano migliaia di passeggeri al giorno. È un meeting point commerciale e, da non sottovalutare, a Milano vive il 20% degli immigrati cinesi in Italia. Io stessa ho degli amici cinesi: do loro piccole lezioni di conversazione italiana, anche se per lo più è un correggere le loro frasi mentre leggiamo il libro di esercizi e prendiamo un caffè o mangiamo ravioli cinesi fatti in casa al tavolino di un bar.
Comunque, l’apprensione per il COVID-19 era già alta a fine gennaio, quando ci chiedevamo come stessero gestendo gli arrivi dall’estero negli aeroporti di Malpensa, Linate e Bergamo, scoprendo – dai tanti amici che rientravano da viaggi extra Europa – che in realtà non venivano assolutamente fatti controlli come si pubblicizzava. E questo era un grande problema perché a Milano non si arriva semplicemente e ci si resta, da Milano ci si sposta. Però, come si fa a chiudere Milano? È impossibile e, intanto, iniziavamo il social distancing. Il 22 febbraio, i primi eventi di Carnevale per bambini già venivano annullati, in farmacia non ci si poteva andare se non si aveva almeno un’oretta a disposizione e noi giovani, in realtà abbastanza sicuri nei nostri se ci colpisce non sarà per noi così grave, ci siamo sentiti di botto in un film: un sabato sera con strade deserte, ristoranti con soli due, tre tavoli occupati, proprio in quei posti dove se non prenoti almeno due settimane prima non entri. Eravamo straniti, ma finché rispettiamo le regole e non stiamo troppo vicini ad altra gente, va bene così.
La risposta del primo lunedì è stata evidente: le persone per strada camminavano tutte distanti, in metropolitana non ci si reggeva – più – agli appositi sostegni se non con dei guanti e nelle ore di punta c’erano tantissimi posti a sedere vuoti, nei bar non potevamo più prendere il caffè al banco, alle casse c’erano già scotch e divisori che ti dicevano dove dovevi fermarti. Le aziende di Milano e dintorni avevano reagito continuando a lavorare ma in smart working, e questo aveva agevolato la maggiore sicurezza per quell’altra fetta dei lavoratori che non poteva ancora permettersi il lavoro da casa. La risposta degli imprenditori infatti non è stata uguale per tutti. C’è chi ci ha messo più tempo a reagire con polso e io stessa ho dovuto recarmi in ufficio per altre settimane successive.
Dal lato personale, avevo un biglietto di andata e ritorno a Napoli il 26 febbraio per festeggiare la laurea magistrale di una mia amica e dovevo fare una scelta: andare o non andare? Dare un dispiacere o ascoltare il senso del dovere? “Vivo in una città in cui molto probabilmente il virus è già in giro da tempo e il contagio è molto veloce – mi ripetevo – Sono in buona salute ma questo non significa che non possa essere una dei tanti asintomatici, devo proprio rischiare di contagiare i miei genitori e i miei amici?”. Ho pensato molto a mia mamma, da un anno immunodepressa, e anche a tutte le sue suppliche da genitore che vorrebbe la figlia sempre accanto, soprattutto in momenti di incertezza e pericolo. Per la prima volta, però, mi sono sentita proprio io il pericolo, mio malgrado.
Non ci sono stati molti dubbi, ho chiesto il rimborso del biglietto – che non è ancora arrivato – e mi sono scusata con la mia amica. Non è stata una scelta a cuor leggero cancellare un viaggio per una come me che scende raramente dagli amici e dalla famiglia, ma andava fatta senza troppi ripensamenti. Quando ho deciso di andare via sapevo anche che ci sarebbero state volte che ne avrei sofferto e che avrei dovuto sopportare. Per questo quando la sera del 7 marzo, con la soffiata della bozza di decreto in cui si proclamava la Lombardia zona rossa, ho saputo dell’ondata di persone, quelle che non erano di certo qui in vacanza, che si era affollata in stazione centrale per prendere un treno per il Sud a qualsiasi costo, mi è salita una rabbia indicibile e ho evitato per qualche giorno di entrare sui social dove i soliti giornalisti da salotto commentavano la situazione dando i loro punti di vista. Per me non c’erano assolutamente due modi di vedere la cosa, proprio io che sono una persona molto lontana dall’estremismo per una volta non intravedevo giustificazioni e provavo una forte vergogna per chi, secondo me, si dimostrava solo egoista, mettendo in pericolo la vita in primis della propria famiglia ma anche quella di tante altre persone. Non era una guerra, non stavano dividendo il Paese per sempre, non c’era da fare una scelta in velocità, c’era solo da rispettare una regola, per la salute di tutti.
Sono in quarantena totale dal 12 marzo, il giorno in cui anche la mia azienda ha deciso di chiudere i propri uffici. Ho fatto lo spesone quel giorno ed è stata tutta un’esperienza: la fila dal supermercato arrivava ai semafori sotto casa mia. Ci ho impiegato ben tre ore e una volta rientrata ho pulito tutto come se dovessi chiudermi in una camera iperbarica. Da allora sono uscita solo un’altra volta, quando è finita la spesa! Devi sapere che casa mia ha un’unica grande finestra che affaccia sul cortile interno, quindi durante il lockdown tutto ciò che ho visto sono state le finestre del vicinato e la Cristina che annaffia i fiori sul balcone con suo marito. All’inizio cercavo la positività in ogni cosa, avevo finalmente la possibilità di dedicarmi a tutto quello per cui non avevo mai avuto tempo: la creatività, la cucina, riordinare gli armadi, studiare il portoghese, fare training online, leggere libri, ascoltare podcast di ogni genere, mettermi al passo con le ultime serie tv che non avevo ancora visto, fare piccoli allenamenti per tenermi in forma. Lavoricchiavo ma essenzialmente ero in ferie. Alle 18, l’unico contatto con esseri umani fuori da uno schermo: mi affacciavo alla finestra per i flashmob e cantavo con i vicini. Per la prima volta, dopo quattro anni, ho un esempio lampante capace di scardinare l’idea del milanese che sta sulle sue: un pomeriggio, presa dall’entusiasmo della musica che risuonava nel cortile, la vecchietta che vedo dalla finestra di casa mia mi ha aspettato per dirmi che aveva cucinato per me dei brownies e felicissima me li ha lanciati in un sacchetto per farmeli assaggiare: “Sono chiusa in casa da tempo per un’operazione, non dovrei essere contagiosa!”, mi ha detto ed è stata adorabile.
Oggi comincio a sentire di più tutte le mancanze mentre la foga dei primi tempi ha iniziato a fare spazio ai pensieri e a ritmi più rilassati; ho accettato che è giusto anche che non faccia nulla per un giorno e va bene così. Nonostante tutto, posso dirti che mi sento molto grata di avere un tetto sotto cui vivere, poter pagare la spesa anche nell’incertezza di questi tempi e, più di ogni altra cosa, di poter restare in quarantena da sola perché così sono certa di non contagiare altre persone, magari i miei genitori.
Tutto ciò che so dell’esterno proviene dai social, da cui vedo una Milano vuota come mai – chissà se i piccioni penseranno di averci sconfitto, leggevo qualche giorno fa e pensando a Piazza Duomo mi viene troppo da ridere! –, dagli aggiornamenti giornalieri del Sindaco Sala, dai racconti degli amici che mi dicono quanto sia difficile continuare a lavorare dovendo costantemente stare attenti, prendere precauzioni, mantenere le distanze. Anche se chiusa in casa riesco a sentire i tram che seguitano a circolare ma sono vuoti e quindi non fanno fermata, le tante sirene di ambulanze a tutte le ore – sono molto vicina all’Ospedale Sacco di cui si parla sui giornali –, i dipendenti dell’AMSA che la mattina puliscono e disinfettano le strade; ma sento anche l’aria più pulita – c’è aria di montagna nella city! – e vedo il cielo più limpido, mi sveglio annoiata con la radiosveglia della ragazza del piano di sopra o mi addormento con la solita playlist che giraerigiraèsemprelastessa del ragazzo di sotto. In pratica, mi sento come chi ha perso la vista ma comincia a rafforzare tutti gli altri sensi. E poi, te lo dicevo all’inizio, mi sento al sicuro.
Anche se sono consapevole che il lavoro, gli eventi, la ripresa della città in generale saranno abbastanza lento, sono certa che sapremo come ripartire al meglio. Ho fiducia nell’Italia, ho fiducia in Milano! Proprio in questi giorni so che è partito non solo il distaccamento del Policlinico in Fiera dove hanno messo su nuovi reparti di terapia intensiva grazie alle tante donazioni pervenute, ma anche un nuovo progetto di hotel per la quarantena, iniziato con l’Hotel Michelangelo che tramite il Comune ha deciso di accogliere nella sua struttura tutte quelle persone dimesse dagli ospedali che non riescono a passare la quarantena in casa perché vivono con altri familiari a rischio. Lassa pur ch’el mond el disa, ma Milan l’è on gran Milan!
Nel frattempo, però… Baùscia, sta a ca’ tua!»
Un contributo di Federica Basile