Davide, figlio di un mio amico e collega, era poco più che adolescente quando lo vidi l’ultima volta poi, lontano da Napoli per circa dieci anni, non ebbi più sue notizie e al mio rientro appresi della scelta che lo aveva portato in Mozambico come volontario. Da qualche anno, l’ho ritrovato sui social seguendolo sempre con interesse.
Gli ho scritto giorni fa per sapere di lui e della situazione sanitaria in Mozambico, di sua moglie Rita, di Adilson, Yana e della piccola Partenope, suoi splendidi figli. Con grande piacere ho trovato una mail che condivido con i nostri lettori:
«Ciao Antonio, oppure Zi’ ‘Ntò, come mi piace chiamarti.
Come ben sai, oramai sono dieci anni che collaboro in Mozambico per alcune ONG italiane, SVI SCAIP MMI. Ci occupiamo di progetti in vari ambiti: agricoltura, salute e microfinanza. Ma in verità oggi ti scrivo per un’altra ragione, che tristemente ci unisce e accomuna tutti in ogni latitudine. Nel vicino Sudafrica, la prima settimana di marzo, ritorna un medico da un viaggio in Italia, risulta positivo al COVID-19. Non diagnosticato in tempo, passa la sua prima settimana a lavoro. Di fatto, dopo qualche giorno, lui è ricoverato e l’ospedale isolato in stato di lockdown.
La premessa sui nostri vicini è importante per vari motivi: in primis esiste una relazione economica sociale estremamente forte tra Mozambico e Sudafrica, soprattutto commerciale, dunque potrai immaginare quanta gente in queste prime settimane si muove come sempre… Poi, il 15 arriva l’ufficialità: il Sudafrica fa lockdown con tutte le frontiere aereoportuali, ma lascia aperta la possibilità al traffico terrestre per assicurare il commercio alimentare per il Mozambico. Intanto, qui si comincia a parlare di prevenzione, i primi timori sorgono soprattutto nella capitale Maputo, città vicina alla frontiera. Gli acquisti di copiosi quantitativi di mascherine e gel disinfettante cominciano a essere sempre più frequenti. In serata, anche il Presidente a reti unificate dà un messaggio alla nazione, la situazione in generale, breve storia sul virus e l’appello ad assumere nuove abitudini e comportamenti per prevenire e difendersi da questo male comune.
Nella settimana tra il 16 e il 20 aumentano i contagi in Sudafrica con conseguente panico. Il pomeriggio di venerdì 20 infatti, dopo una riunione con i vertici del Ministero della Salute Pubblica, di vari organi nazionali e organizzazioni non governative, il Presidente fa un secondo messaggio alla nazione dove annuncia che a partire da lunedì 23 saranno adottate misure più restrittive per prevenire l’espansione del virus su territorio nazionale. La domenica successiva, un collega e io partiamo per Maputo – lavoriamo a Morrumbene, un piccolo distretto della provincia di Inhambane (una provincia circa a 500 km dalla capitale) – con il piano di far scorta di alcuni dispositivi di sicurezza personale da fornire a tutti noi e soprattutto ai nostri operatori sanitari. Non si fa in tempo ad arrivare a lunedì con le nuove restrizioni, però, che già in serata il MISAU (Ministerio Da Saude) dichiara il primo caso positivo al coronavirus.
Facciamo in fretta i nostri acquisti che, ovviamente, sono difficili perché tutti ora vanno correndo ed è caccia a gel, alcool e mascherine. Martedì in serata siamo di ritorno e i casi sono già tre. Mercoledì il Sudafrica dichiara lo stato di emergenza quindi il lockdown generale dell’intero Paese. Nella giornata di giovedì e venerdì, circa 20mila mozambicani residenti in Sudafrica, con lavori precari saltuari, ritornano illegalmente in patria attraverso “buchi” nelle frontiere:ovviamente i limiti territoriali sono marcati da pali e reti di ferro non sorvegliati, quindi poco più di un pollaio come struttura, creando un possibile veicolo di trasmissione.
Sino a ieri, sabato, i contagi erano saliti a otto ma il domani sembra sempre più preoccupante. Oggi è una bella domenica qui a Maxixe – città dove vivo con la mia familia –, una di quelle belle giornate soleggiate e calde che ci avrebbero obbligato, sino a un mese fa, a organizzare una gita al mare o una piacevole passeggiata verso qualche lodge turistico con piscina, perché i tre scugnizzi che ho non saremmo riusciti a obbligarli a stare in casa e invece… Invece ora no, da venerdì 20 sono qui, scuole chiuse e tutti a casa. Spiegare loro perché si sta tutti a casa, convincerli che non si può uscire a causa di un nemico invisibile, come molti lo definiscono, non è per nulla facile. Per ora, Zì ‘Ntò, questo è quanto, restiamo al chiuso, con le paure di tutti credo, solo con in più la tristezza per la distanza di alcuni cari, la consapevolezza che i territori in cui ci troviamo, io e tanti come me che fanno il nostro mestiere in Paesi come il Mozambico, non offrono la sicurezza di un sistema sanitario efficiente, anzi in alcune zone quasi inesistente.
Ho comunque la consapevolezza che, anche se dovessero dichiarare lo stato di emergenza, parte della popolazione, una buona parte della popolazione, non farà molto, forse nulla di diverso dal suo quotidiano perché tanto è già tragico così e un organismo microscopico e invisibile non riesce proprio a spaventare. Forse questo è un po’ il mood che molti Paesi africani condividono: ieri è andato, oggi è oggi, domani non esiste. Io, invece, preservando in me quella napoletanità che ci ha fatto grandi nei secoli continuo a ripetermi ha dda passà ‘a nuttata».
Un contributo di Davide Tomberli