Da quando le misure di sicurezza per il contenimento del coronavirus si sono fatte più stringenti, è apparso evidente quanto la drastica diminuzione di consumi e spostamenti abbia avuto un impatto sull’ambiente. Lungi dal credere che la pandemia possa avere lati positivi, essa può però rappresentare un’opportunità per comprendere quanto, in realtà, le attività quotidiane a cui diamo poco peso incidano sulle emissioni che inquinano l’aria che respiriamo. La riduzione dell’impatto ambientale delle grandi città, infatti, è stato imminente e lo confermano i dati dell’European Environment Agency secondo cui alla diminuzione del traffico e delle intense attività cittadine dei centri in lockdown è seguita una drastica diminuzione delle emissioni.
Nelle ultime quattro settimane, la concentrazione media di biossido di azoto a Milano è diminuita del 24% rispetto alle quattro settimane precedenti, a Bergamo addirittura del 47%. Non sono solo le città italiane, però, ad aver segnato l’impatto positivo: anche Barcellona, Madrid e Lisbona hanno registrato, nel giro di una settimana, un calo tra il 40 e il 56% delle emissioni. Alla vista di numeri del genere è facile rendersi conto di quanto le attività antropiche incidano sull’ambiente, quella componente delle nostre vite tanto delicata quanto fondamentale che diamo spesso per scontata. D’altronde, a parte la registrazione di questi dati, a cui è stata comunque riservata poca attenzione, le questioni del riscaldamento globale, delle foreste in fiamme e dell’inquinamento dilagante sono state pressoché trascurate negli ultimi mesi poiché, facile a dirsi, la nostra attenzione è rivolta a problemi di più evidente imminenza. Eppure, come da tempo la comunità scientifica avvisa e come recentissimi studi dimostrano, il rischio per la vita è molto più incombente del previsto.
È stato recentemente pubblicato su Nature uno studio internazionale sulla saturazione dei pozzi di petrolio condotto su 565 aree diverse dell’Africa e dell’Amazzonia. Alla ricerca, che ha coinvolto decine di scienziati di tutto il mondo, e ai suoi risultati è conseguito un grido d’allarme: le foreste tropicali assorbono meno anidride carbonica del previsto. Esse hanno sempre rappresentato un enorme salvagente per la sconsiderata attività umana grazie alla loro capacità di assorbire CO2. Tutta la biomassa – quindi tutte le piante – in realtà, sottrae anidride carbonica all’aria grazie al processo di fotosintesi, ma le immense foreste pluviali sono considerate dei veri e propri pozzi di carbonio a causa della capacità di assorbirne ingenti quantità. Si stima che fino al 2008 esse eliminassero il 53% delle emissioni. A partire da allora, però, i due grandi polmoni della Terra, tanto simili per composizione e comportamento, non hanno solo iniziato a saturarsi più in fretta di quanto le più pessimistiche previsioni avessero immaginato, ma hanno iniziato a mostrare dati discordanti, destando la preoccupazione degli esperti.
È da qui che nasce lo studio di Wannes Hubau, Simon Lewis e Liza Zemagho sull’Asincronia della saturazione dei pozzi di carbonio nelle foreste tropicali Amazzonica e Africane, le cui divergenze prospettano un insicuro avvenire. La capacità di assorbimento è diminuita di circa un terzo rispetto agli anni Novanta e le foreste non sono più in grado di rallentare i cambiamenti climatici. Il ruolo fondamentale che hanno giocato fino a ora, però, non rischia solo di arrestarsi, ma anche di invertire la rotta e di danneggiare ulteriormente l’atmosfera. A dimostrarlo è proprio l’asincronia delle due foreste: la Foresta Amazzonica ha raggiunto il picco di assorbimento negli anni Novanta e da allora non riesce a tenere il passo con l’impatto umano, ma sembrava che al polmone africano restasse più tempo. Purtroppo, però, l’aumento di CO2 nell’atmosfera stimola una più rapida crescita nella vegetazione, il che potrebbe sembrare un vantaggio. Tuttavia, se gli alberi crescono più in fretta, muoiono anche prima del previsto. E, come se non bastasse, le alte temperature dovute all’elevata presenza di gas serra nell’atmosfera contribuisce alla prematura morte della vegetazione. Di questo passo, le foreste africane raggiungeranno la saturazione entro il 2060 e l’Amazzonia per il 2040.
Dunque, se non si interviene in fretta, si rischia che la natura, invece di rallentare il cambiamento climatico come ha disperatamente tentato di fare fino a ora, finisca per accelerarlo. Indubbiamente, i devastanti incendi e le deforestazioni di cui le zone verdi del pianeta sono state vittime in questi anni hanno inciso gravemente sull’accelerata saturazione delle foreste. La comunità scientifica avverte che siamo ancora in tempo per modificare la rotta, ma solo diminuendo le emissioni molto più in fretta e molto più drasticamente di quanto i nostri piani prevedano. Questa finestra di azione, però, si sta chiudendo rapidamente e, se restiamo inerti, giungeremo presto al punto di non ritorno.