Aspettiamo. Speriamo. Ogni giorno. Le ore 18 come una mezzanotte, lo scandire del tempo tra ieri, e le sue certezze dense del dramma, e oggi che – chissà – forse andrà meglio. Il bollettino della Protezione Civile giunge puntuale e rimanda a domani quel respiro finalmente leggero che si strozza, ancora una volta, alla conta dei drammatici dati. Una buona notizia è tutto ciò che attendiamo.
Non è solo il virus a farci paura, quanto l’idea di rinunciare a tutto quello che avevamo dato per scontato fino al momento in cui il COVID-19 ha cambiato o, per meglio dire, stravolto l’andare delle nostre esistenze: lavoro, amici, viaggi. Più in generale, partecipazione. Siamo sommersi dalla tristezza di guardare le nostre strade, solitamente frenetiche, ormai vuote, tanto da affacciarci ai balconi e unirci in un coro che vuol essere vicinanza, solidarietà, farsi forza l’uno con l’altro, l’uno per l’altro.
Abbiamo imparato o, forse, ingoiato un boccone alla volta fino ad averne piena ogni cellula, ad associare la notizia all’alta tensione, alle sventure, agli episodi della disgrazia, che sia divulgata dal TG della sera o all’apertura di un quotidiano. Di conseguenza, non vi è link che condividiamo sui social che non sia intriso di negatività, un veleno che, a nostra volta, rigettiamo in faccia al primo colpevole a cui lo abbiniamo. Siamo assuefatti dal linguaggio della politica di questi anni, abbiamo talmente interiorizzato parole d’odio che ci basta leggere di una busta di plastica ritrovata sulla battigia per apostrofare sconosciuti e non come idioti, incoscienti, ognuno ha la ricetta perfetta per la soluzione finale dell’umanità che più non gli garba. Eppure, allo stato attuale, con il coronavirus che minaccia – per davvero – le nostre esistenze, una lieve tendenza al ribasso dei nuovi casi, o una maschera per la spiaggia che si fa respiratore, prende le sembianze di una notizia gentile, una lieta novella attesa da tutta una vita.
Informare non è, e non deve essere, sinonimo di racconti dai toni tesi, e una mediazione tra il sacrosanto diritto alla cronaca e l’altrettanto intangibile dovere alla verità – che spesso è più felice di quanto non appaia sfogliando un giornale – è responsabilità di noi operatori dell’informazione quanto dei suoi fruitori. È dovere di tutti richiedere una narrazione che non sembri costantemente ispirata a un nuovo capitolo della saga di Resident Evil, opporre al racconto solitamente offerto della politica, dei grandi temi, delle nostre strade, con quanto di buono questi hanno da proporre o propongono ogni giorno.
Abbiamo tutti contribuito, infatti, attraverso gesti apparentemente innocui, a offrire dati che hanno raccontato questa insana esigenza di violenza e malessere. Chi non ha mai cliccato sui video degli attacchi terroristici degli anni scorsi, persino aiutato la diffusione dei tragici filmati sui social? Quanti ne abbiamo visti correre al cellulare durante le scosse in Centro Italia nel 2018 anziché mettersi al riparo? Chi ha preferito un libro o una vecchia passione messa in soffitta alle immagini dagli ospedali lombardi o delle stazioni prese d’assalto dai cittadini del Sud? Il risultato è una sensazione di claustrofobia rispetto all’incessante bombardamento della notizia dal fronte, un’insofferenza ai programmi di approfondimento che si alternano, sempre più di rado, a occasioni d’intrattenimento leggero e spensierato.
Facciamo un esperimento: prendete carta e penna e scrivete accanto alle parole qui di seguito la prima immagine che formulerà la vostra mente. Cominciamo: politica; immigrazione; carcere; ragazzi; Sud Italia; Scampia. Altre suggeritele voi nei commenti. State pur certi, nella maggior parte dei casi, il vostro inconscio avrà associato ai vocaboli sopracitati termini come malaffare, business, rapine, stupri, alcool, droga, mafia.
Cosa sarebbe successo se accanto ai titoli di violenza non ci avessero abituato a collegare il carnefice alla nazionalità dalla quale proviene? Quale sarebbe stato il vostro sentire se un modello come quello di Riace fosse stato preso ad esempio da tutti i Comuni in dissesto, dando ai profughi una reale opportunità di inserimento nella società anziché lasciarli in balia delle sirene della criminalità organizzata? Allo stesso modo, perché per cento rapine e retate nei luoghi dello spaccio, non viene proposto il racconto di centinaia di associazioni che strappano i ragazzi alla malavita, di migliaia di volontari che offrono ai quartieri come quello napoletano citato ciò di cui lo Stato è carente?
Chiediamo gentilezza, pretendiamo grazia nei toni, una sana e corretta alternanza. Una buona notizia è un soffio di vento in una giornata arida, un sorriso al termine di una pesante giornata lavorativa. La paura, l’ansia, la costante sensazione di essere in pericolo – che sia a causa di baby gang, immigrati, un virus sconosciuto – sono la più grande fonte di reddito per chi mira al controllo di ogni nostro stato d’animo, le armi in mano alla mala politica per limitare la libertà dei suoi cittadini.
Sono le 18 anche oggi e i dati ancora non danno conforto. Ma tante storie, anche in questi tempi irreali, questi giorni che ci costringono a stare lontani, vogliono trovare una voce. Offrire speranza in mezzo a tanta fragilità. Una buona notizia è tutto ciò che attendiamo, tutto quanto abbiamo ancora per sentirci vivi.