Appena pochi giorni fa, ho chiesto a Viviana, un’amica di base a Madrid, di raccontarmi come si vivesse in Spagna questo periodo di sospensione della normalità. Se stesse bene, se avvertisse quell’angoscia che qui in Italia si sta propagando più velocemente del virus stesso, se l’emergenza, a molti chilometri da casa, avesse un peso diverso. Mi ha risposto con una rapidità che mi è parsa impazienza, un bisogno naturale di dar voce ai propri sentimenti, a una storia così sincera da avermi emozionato. Di seguito, le sue parole:
«Ciao Flavia,
prima di raccontarti di me, vorrei ringraziarti per avermi proposto di collaborare alla vostra inchiesta sugli italiani all’estero e spero che la mia esperienza possa esserti utile in qualche modo.
Mi sono laureata all’Università L’Orientale nel dicembre 2015 in Lingue, Letterature e Culture Europee e Americane. Alla triennale studiavo sia spagnolo che inglese, poi alla magistrale ho deciso di approfondire solo lo spagnolo. Sin da quando ero bambina sognavo di vivere in Spagna. Non chiedermi la motivazione perché non saprei cosa risponderti. So solo che, come tutte le passioni, è un qualcosa di innato.
Il 13 maggio del 2016 sono arrivata a Madrid. Ho vissuto per il primo mese e mezzo a casa di Ana e Francisco, i genitori di una bellissima famiglia che ho conosciuto in un mio precedente viaggio nella capitale ispanica. Sono passati tanti anni, ma non dimentico la loro disponibilità e il loro grande aiuto. Anzi, oserei dire che Ana è la mia mamma spagnola. Ogni volta che sono triste o che ho un problema, lei è sempre lì, pronta ad aiutarmi. Sono davvero fortunata ad averli nella mia vita.
Dopo essermi trasferita, ho convissuto con altri due inquilini, un peruviano e una ragazza della Repubblica Domenicana. Ho svolto diversi lavori da quando sono qui: guida, transfert di gruppi turistici da aeroporto a hotel e viceversa, hostess nel City Sightseeing, coordinatrice presso una compagnia che si occupa di fornire trasporto e guide alle varie agenzie di viaggi. Insomma, mi sono sempre mossa nell’ambito del turismo.
Da quasi tre anni sono fidanzata con un ragazzo che lavora come guida turistica ufficiale e viviamo insieme da un anno. Ti dico questa cosa perché tutta la vicenda legata al coronavirus ha influito anche sulla sua professione, come ti spiegherò più avanti.
Quando è scoppiato l’allarme del virus in Cina, mi stavo dedicando alla preparazione di un esame per diventare guida ufficiale delle Isole Canarie. Sia io che le persone a me vicine assistevamo a ciò che stava accadendo in modo distaccato, come se fosse solo un problema del lontano Paese asiatico. Tuttavia, seppur relativamente, ho iniziato a percepire la gravità della cosa solo quando in Italia si parlava di chiudere le scuole.
Qui in Spagna notavo che tutti stessero sottovalutando il problema, le istituzioni in particolare. I politici, pur vedendo ciò che stava accadendo nel Paese vicino, non adottavano nessuna misura di precauzione e la gente continuava a fare vita normale come se niente fosse o, meglio, come se fosse una questione cinese prima e italiana poi.
In quel periodo, ero particolarmente preoccupata per il mio fidanzato poiché ogni giorno era obbligato a stare a contatto con centinaia di turisti e a condividere spazi piccoli con loro. La maggior parte della sua clientela era formata da asiatici, cinesi soprattutto. Ricordo che gli ho comprato una boccetta di Amuchina per sicurezza! Quando tornava a casa, mi raccontava come giorno dopo giorno l’affluenza di turisti asiatici stesse diminuendo. Io, invece, parlando con i miei colleghi, notavo che si facevano sempre più forti i dubbi dai quali venivano attanagliati i nostri fornitori e le varie agenzie di viaggio. Però, ti ripeto, erano solo incertezze, nulla di concreto, perché davvero qui in Spagna non c’era la stessa psicosi che avvertivo in Italia.
Mia mamma mi chiedeva spesso come stessero andando le cose a Madrid e io le rispondevo sempre in modo tranquillo, che non c’era grande allarmismo. Certo, ci dicevano di lavarci le mani, ma niente di più. A volte, pensavo persino che in Italia stessero esagerando quando comparavo la situazione del mio Paese natale con quella spagnola. Il primo vero cambiamento, però, l’ho percepito il 4 marzo. Avevo appuntamento con l’estetista, la quale ha il negozio in un centro commerciale. Sin da subito, mi ha sorpreso la poca affluenza perché il centro è uno dei principali di Madrid. Da lì ho iniziato a inquietarmi sempre di più.
I politici, compreso il Ministro della Salute, si preoccupavano solo di tenere tutti tranquilli, mentre si insisteva nel far passare il messaggio che il coronavirus fosse una semplice influenza, che i giovani dovevano stare sereni in quanto colpiva solo le persone anziane con patologie pregresse e che con la giusta igiene sarebbe stato tutto sotto controllo. Io, invece, vedevo quanto le cose si stessero aggravando in Italia, ma quando cercavo di trasmettere le mie preoccupazioni venivo additata come quella pesante, esagerata, ipocondriaca.
Qualche giorno prima della mia partenza per le Canarie ero piuttosto timorosa, non volevo andare, ma ormai avevo studiato e l’esame dovevo sostenerlo. L’8 marzo, quindi, sono partita per Las Palmas de Gran Canaria. Arrivata lì, ho avvertito un senso di desolazione che non avevo provato ancora a Madrid. Nonostante il clima quasi estivo e le bellissime spiagge, c’erano poche persone e mi è parso strano perché non era la prima volta che visitavo le Canarie a marzo ed erano sempre state piene di turisti. Invece, stavolta c’era poca gente per le strade, poca nei principali luoghi di interesse turistico, poca ovunque.
La sera del 9 marzo mi ha chiamato una mia amica avvisandomi che in Spagna avevano dichiarato lo stato d’allarme perché a Madrid in ventiquattro ore erano aumentati esponenzialmente i casi di coronavirus, chiudevano anche le scuole. Il giorno dopo avevo l’aereo di ritorno ma temevo una possibile cancellazione del volo, anche perché era successo tutto così all’improvviso che non ero preparata. Sì, la scarsa presenza di gente, ok, ma il panico non si avvertiva ancora. E, invece, quella notte ho avuto sinceramente paura. Per fortuna, sono riuscita a tornare a Madrid e da lì in poi la situazione è degenerata. La folla che assaltava i supermercati, i gel igienizzanti introvabili, la corsa alle mascherine, insomma, lo stesso incubo che avevate già vissuto in Italia stava prendendo piede anche qui.
Io adesso mi trovo in un paesino alle porte di Toledo per vari motivi: qui vive la famiglia del mio ragazzo che si sentiva più sicuro a passare questo periodo con loro accanto. Lui, intanto, è stato temporaneamente licenziato, in questo modo il sussidio lo pagherà lo Stato attraverso la disoccupazione e io percepirò metà stipendio, quindi non ci è più possibile pagare l’affitto della nostra casa di Madrid. Le nostre cose sono ancora lì così, per non creare disagio al proprietario, gli abbiamo detto che può tenersi la caparra che si dà all’inizio quando entri in un appartamento e che, se è tutto in regola, ti restituiscono quando vai via. In questo caso, abbiamo preferito perderla e avere ancora un margine di tempo per lasciare le nostre cose lì. Poi, appena sarà possibile, troveremo il modo di fare il trasloco.
La gran parte delle compagnie che operano nel settore del turismo ha mandato i propri dipendenti a casa perché, ovviamente, sono state cancellate le prenotazioni di tutte le visite guidate da qui a un anno. Il settore del turismo è uno degli ultimi che si riprenderà, a mio avviso, poiché non dipende soltanto dalla Spagna, ma anche dall’economia del resto dei Paesi dai quali provengono i turisti.
Qui siamo in quarantena e si esce solo per fare la spesa, la polizia per strada ti chiede la certificazione, ma c’è ancora tanta, tanta gente che continua ad andare a correre nei parchi, per esempio, come se niente fosse. In Spagna, poi, si aggiunge anche il fattore monarchia. In questo momento storico risulta ancora più lampante quanto inutile sia – per alcuni spagnoli – la figura del re. Molti cittadini si sono persino radunati sui balconi per una cacerolada, cioè una protesta fatta agitando pentole contro la famiglia reale. In tanti, inoltre, accusano il Partido Popular di aver tagliato i fondi alla sanità pubblica negli anni precedenti e ora, invece, ci si rende conto di quanto indispensabile sia.
Ogni sera alle 20 ci si ritrova tutti affacciati alle finestre per applaudire e dare forza ai medici e agli operatori sanitari che stanno lottando per aiutare la società spagnola. Inoltre, si parla molto di dare visibilità a quelle categorie che in tempi passati sono state un po’ declassate, come i camionisti, i cassieri dei supermercati o gli addetti alle pulizie.
Non mi sento di accusare la classe politica spagnola perché mi rendo conto di quanto complicata sia da gestire l’attuale situazione, però ci sono state delle parole in particolare che hanno destato in me una reale perplessità, cioè quelle pronunciate dalla Presidentessa della Comunidad de Madrid, Isabel Díaz Ayuso, durante un’intervista: No sé cómo se hace, no sé cómo se cierra Madrid, realmente. No sé cómo se podría hacer una cosa así. Non so come si fa, non so come si chiude Madrid, realmente. Non so come si possa fare una cosa così. Credimi, mi sono sentita spaesata e in balia degli eventi. Ho smesso, per un attimo, per la prima volta forse, di sentirmi sicura nella mia Madrid.
Qui abbiamo superato già i 40mila contagi. Spero solo che la gente comprenda l’importanza di restare a casa perché in questo momento è l’unico modo che abbiamo per tutelarci.
Non so se ti risulta interessante ciò che ho scritto, ti ho parlato sinceramente della mia esperienza diretta e personale, come se mi stessi confidando con un’amica, senza pensare al giornale.
Ti mando un abbraccio… Y yo me quedo en casa».
Un contributo di Viviana Ciotola