I momenti di grande crisi precedono sempre grandi rivolgimenti. Lo storico Jean Delumeau che, nel suo saggio Storia della paura in Occidente (ed. Il Saggiatore) indaga il sentimento collettivo della paura nella sua duplice natura di istinto di sopravvivenza e psicosi distruttiva, sostiene che uno degli aspetti ricorrenti nella storia delle epidemie di peste è stato il provare a ricondurne le cause a qualcosa di superiore, un agente sovrumano che metteva angoscia proprio perché sfuggiva al dominio dell’uomo, innescando in lui un meccanismo di colpa che, in qualche modo, gli restituiva il controllo almeno del suo comportamento individuale: una punizione divina che poteva essere revocata con la preghiera e con l’individuazione e l’eliminazione dei colpevoli.
Tracce di quell’istinto che spingeva i nostri antenati a ricercare le cause delle pestilenze nelle comete o nelle stelle ostili evidentemente si sono tramandate a noi poiché, proprio in questi giorni, si assiste a una specie di ossessione collettiva per i presagi. Spinti da un incontenibile impulso a scovare il segnale occulto, il più vago cenno di predestinazione nell’universo che ci circonda, le nostre piazze digitali si sono riempite di profezie tratte da romanzi e libercoli di indovini. Tra questi, è diventata virale la notizia, diffusa sui social dall’influencer Kim Kardashian West, che una veggente americana di nome Sylvia Brown – morta, peraltro, in circostanze misteriose come si addice a un buon indovino – avesse previsto la pandemia e l’impatto che avrebbe avuto sulle vite delle persone in tutto il mondo in un suo libro del 2008.
Non è infrequente che in periodi di forte incertezza e instabilità le persone si rifugino nel conforto dato dall’illusione di un destino già scritto. In qualche modo, la tendenza era tra noi anche prima dello scoppio della pandemia: è pratica ormai diffusa tra i millennial quella di affidarsi all’oroscopo e alle affinità dei segni zodiacali per decidere se intraprendere una relazione, ad esempio. Nel medioevo digitale del 2020, gli astrologi sono su Instagram, ma la sostanza non cambia. Guardare al passato ci dà la misura di ciò che siamo stati e di come le paure collettive possano riproporsi, seppur con le dovute eccezioni, anche a molti secoli di distanza. Proiettare il nostro sguardo verso il domani è inevitabile, se non addirittura fisiologico. E allora, qual è il futuro che ci si para davanti?
Già da qualche tempo, le grandi aziende assumono gli scrittori di fantascienza per prevedere gli scenari del mondo futuribile, in modo da intercettare i bisogni e le preoccupazioni dei consumatori o modificarne e influenzarne le abitudini d’acquisto, prima che sia troppo tardi. Qui l’arte divinatoria non c’entra: sul sito di SciFuture – azienda che vende alle grandi imprese visioni del futuro – si può leggere uno degli slogan pubblicitari migliori e più onesti in circolazione: le storie sono dati con un’anima. In un’intervista rilasciata al New Yorker nel 2017, il fondatore Ari Popper e i suoi collaboratori hanno raccontato di aver lavorato più volte per la NATO. In una delle storie da loro pubblicate – scritta prima delle presidenziali americane del 2016 –, i social network venivano inondati dalle fake news orchestrate da una campagna di propaganda russa. Per scongiurare una rivolta in Estonia, un soldato NATO infettava nel flusso dei social una specie di bomba della verità, riuscendo a neutralizzare la mistificazione grazie al fatto che a quel punto le persone avrebbero riconosciuto le vere informazioni.
Se questo scenario risulta familiare non è perché gli scrittori di fantascienza siano letteralmente in grado di prevedere il futuro, ma perché sono in grado di leggere le sfide e le criticità del loro presente. Mentre la pandemia di COVID-19 mette a nudo le falle del sistema socio-economico occidentale, possiamo provare a interrogarci lucidamente sui cambiamenti dei quali siamo testimoni e che ci accompagneranno d’ora in avanti.
A emergere con chiarezza in tutta la sua importanza è la dimensione digitale della nostra socialità: fino a qualche anno fa, per esempio, sarebbe stato impensabile credere di affrontare una pandemia barricati in casa, avendo comunque sempre a portata di mano una finestra sul mondo di chi amiamo. Videochiamate, chat e social network alleviano il peso della solitudine. Le iniziative di solidarietà digitale offrono cultura e servizi gratuitamente. Attraverso la rete, scuole e università formano gli studenti a distanza e tutti hanno ormai imparato cos’è lo smart working. Secondo i dati raccolti da Sensor Tower, agenzia di analisi statistiche, e riportati dall’Economist, aziende come Microsoft Teams, Slack, Zoom, We Chat Work e tutte le altre che offrono servizi di messaggistica e videochat online in tempo reale hanno visto crescere a livello esponenziale il numero di utenti attivi sulle loro app: dal milione e mezzo registrato a gennaio a quasi sette milioni all’inizio di marzo.
D’altro canto, questa rivoluzione involontaria delle nostre abitudini è anche e soprattutto rivoluzione dei mercati. Le piattaforme d’intrattenimento streaming come Netflix o la neonata Disney+ sono l’unica alternativa al cinema e fagocitano, pezzo dopo pezzo, anche quello spazio: un sondaggio condotto da una compagnia di pagamenti elettronici inglese ha mostrato picchi nella crescita di sottoscrizioni a Netflix (circa il 12% in più) dopo l’aggravarsi della pandemia. Lo stesso avviene per tutti i settori dello shopping e perfino per la spesa, che oggi può essere recapitata tranquillamente a casa senza fare file interminabili al supermercato, con la mascherina che fa sudare la faccia e l’imprevisto di non trovare la carta igienica. Emblematico il fatto che, in piena crisi, Amazon abbia annunciato di voler assumere 100mila nuovi dipendenti per poter far fronte alla massiccia richiesta di ordini causati dal COVID-19.
Fare sempre di più affidamento sulla gig economy può sembrare la soluzione: mai come oggi la compenetrazione del mondo online e del mondo offline risulta evidente e necessaria. Mai come oggi l’utilizzo delle app e delle piattaforme di quelle che il New York Times definisce convenience-as-a-service, che vendono la comodità come servizio, offre conforto ai consumatori: la possibilità di acquistare o utilizzare servizi in rete diventa un modo per ripristinare la sensazione di avere la situazione sotto controllo e la speranza che, dopotutto, il mondo come lo conosciamo non ci crollerà addosso. In un certo qual modo, le rassicurazioni che nelle cicliche epidemie di peste del passato cercavamo in Dio, oggi le cerchiamo nelle tech company.
Eppure, insieme alle opportunità, dobbiamo prendere atto delle precarietà tutte nuove del digitale. Proprio ai lavoratori di quella gig economy che prospera – come, ad esempio, i fattorini dei servizi di food delivery – si impone la scelta tra salute e lavoro: essendo classificati come lavoratori occasionali, questa fascia di lavoratori non ha tutele. Se continua a lavorare, rischia di ammalarsi e se smette di lavorare rischia di non riuscire a far fronte alle spese quotidiane. La quantità massiccia degli ordini ha messo in crisi perfino un colosso come Amazon, che si è visto costretto a ritardare le consegne di merce non essenziale. Le persone che si affollano sulla rete, inoltre, hanno portato Netflix e YouTube ad abbassare la qualità di risoluzione dei video per scongiurare il sovraccarico.
Infine, la pandemia e il distanziamento sociale ci mettono ancora una volta di fronte al fatto che il nostro mondo viaggia ad almeno due velocità. Ci si dimentica che il privilegio della digitalizzazione è appannaggio di pochi – nel 2016, le persone senza una connessione internet nel mondo erano 4 miliardi – e questo si ripercuote in maniera critica sull’educazione e la formazione delle fasce sociali meno abbienti: gli studenti che non hanno accesso al web o un computer sono condannati a perdersi le lezioni organizzate online, sono condannati a restare indietro.
L’Occidente che vuole continuare a consumare e produrre freneticamente, spostando semplicemente l’azione da offline a online, è cieco di fronte alla differenza. Nel nome di un capitalismo già decadente, rischiamo di compromettere ancora il nostro futuro. Un futuro che, come stiamo imparando in questi giorni difficili, per dirsi veramente progresso, deve riportare in cima alla sua scala dei valori l’umano e non la merce.