Da oramai due settimane il COVID-19 ha sconvolto le esistenze di tutti, ha modificato la nostra quotidianità e ci ha relegato nel nostro spazio domestico, limitando gli spostamenti alle sole necessità più essenziali. Ma se c’è un luogo in cui l’impatto del coronavirus è stato ancora più tragico è il carcere, dove le conseguenze rischiano di essere quelle di un vero e proprio sterminio di massa, se urgenti misure per affrontare la situazione non vengono adottate immediatamente.
L’emergenza ha messo in luce criticità che bisognava affrontare già da tempo, fin da quando nel 2013 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza Torreggiani condannò l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione per i trattamenti inumani e degradanti cui erano sottoposti molti detenuti a causa del sovraffollamento. Da allora, la situazione non è cambiata e i nostri istituti penitenziari “ospitano” 10300 persone in più rispetto ai posti letto ufficiali, senza contare quelli non realmente disponibili, sfiorando un tasso di sovraffollamento del 120%. Dunque, la paura del contagio, insieme alla mancanza di informazioni chiare e alle limitazioni di tutti i contatti con l’esterno – che per i reclusi rappresentano l’unica forma di libertà –, hanno esasperato le condizioni di vita già di per sé difficili, provocando proteste in quasi cinquanta carceri durante le quali hanno perso la vita ben 14 persone di cui fino a poco fa non si conoscevano neppure i nomi.
Negli ultimi giorni, anche in altri Paesi colpiti dal coronavirus, si sono verificate sommosse nelle case di detenzione: in Francia proteste sono state messe in atto nel carcere di Grasse e nella prigione di Metz, mentre in Spagna i prigionieri hanno deciso di portare avanti uno sciopero della fame in due blocchi carcerari in Catalogna, in seguito alla notizia di un detenuto risultato positivo. Le prime notizie di contagi negli istituti penitenziari, però, stanno arrivando anche in Italia: dieci in tutto, pare, dal carcere di Pavia, Modena, Lecce, Voghera e San Vittore. Tutte notizie frammentate e non chiare. La domanda che sorge spontanea è, quindi, come possa un recluso in un luogo sovraffollato portare avanti il cosiddetto isolamento domiciliare o rispettare il distanziamento sociale. Le uniche indicazioni che si hanno a riguardo provengono da circolari del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria che ha stabilito che nel caso in cui l’isolamento non possa compiersi in strutture apposite o in camere singole che impediscono contatti con l’esterno, esso sarà portato avanti nella propria cella, costringendo allo stesso i propri “coinquilini”, che in alcuni casi sono addirittura dieci o dodici.
Intanto, nel decreto Cura Italia varato il 17 marzo, il governo ha inserito due articoli (il 123 e il 124) che predispongono misure per diminuire il sovraffollamento e prevenire i rischi di contagio. Si tratta di un intervento nei confronti del quale si era creata nei giorni scorsi una grande aspettativa, dopo che da più parti e da più autorevoli voci si era chiesto di riportare gli istituti almeno alla loro capienza regolamentare poiché solo in questo modo sarebbe stato possibile attrezzarsi per affrontare il diffondersi del virus, liberando quanti più letti e camere di pernottamento possibile. E invece, anche stavolta, le misure adottate risultano insufficienti e prive di qualsiasi valore reale.
Innanzitutto, l’art. 123 – che riguarda la detenzione domiciliare – non fa altro che ribadire una possibilità che era già stata inserita nel nostro ordinamento dalla Legge 199 del 2010, poi denominata Svuotacarceri, che, inizialmente pensata come provvedimento deflattivo temporaneo, è poi diventata parte integrante del nostro sistema sanzionatorio in via definitiva nel 2014. Si attribuisce con questa norma la possibilità di scontare la pena presso la propria abitazione, o presso altro luogo pubblico o privato che li accolga, a coloro i quali hanno una pena o un residuo di pena non superiore a 18 mesi. Il Cura Italia non fa altro che ribadire tale opportunità fino al 30 giugno prossimo, aggiungendo però una preclusione di carattere disciplinare e dal chiaro intento moralizzatore: non potranno accedervi coloro che nell’ultimo anno hanno ricevuto un rapporto disciplinare, compresi quelli hanno partecipato alle proteste delle scorse settimane. Oltretutto, è sufficiente il solo rapporto disciplinare, dunque un atto unilaterale di solito redatto dalla polizia penitenziaria, rispetto al quale non c’è alcun contraddittorio né accertamento.
È chiaro l’intento punitivo nei confronti di quanti hanno protestato per ottenere la salvaguardia e il rispetto della loro salute, con una palese violazione del fine rieducativo che l’istituzione dovrebbe perseguire. Ma questo altro non è che lo specchio del nostro governo: le uniche parole spese dal Ministro della Giustizia Bonafede a seguito delle sommosse sono state non un passo indietro rispetto all’illegalità. Non una parola sulle vittime, nulla sulla necessità di chiarezza e di indagini rispetto alle dinamiche dei fatti, nulla sulle condizioni disumane cui i detenuti sono costretti né sulla presenza di reclusi anziani e con patologie pregresse che in questo momento rischiano ancora di più.
Solo due articoli, in un decreto che si occupa di misure economiche e finanziarie, contenenti inoltre misure inefficaci. Infatti, oltre a questa preclusione, persistono le altre previste dalla Legge 199, in base alla quale sono esclusi da tale beneficio taluni tipi di reati per la loro gravità – stalking, maltrattamenti familiari, illeciti per i quali è previsto il regime dell’ostatività –, i delinquenti dichiarati abituali, professionali o per tendenza e, infine, coloro che non hanno un domicilio effettivo e idoneo. Quest’ultima previsione, in particolare, rischia di tagliare fuori un grande numero di reclusi, le cui famiglie spesso non abitano in luoghi che sarebbero definiti idonei in tal senso: basti pensare ai tanti migranti che affollano le nostre carceri e a cui sarebbe preclusa qualsiasi possibilità di uscire.
L’art. 124 si occupa invece dei semiliberi, ossia coloro che escono dal carcere per svolgere lavoro all’esterno e rientrarvi la sera: per loro è prevista la concessione di permessi premio senza limiti fino al 30 giugno in modo da diminuire il rischio di contagio che il rientro comporterebbe. A diminuire ancora di più l’impatto delle misure in questione due ulteriori elementi: esse si rivolgono ai condannati in via definitiva, escludendo invece i detenuti in attesa del passaggio in giudicato della sentenza e i detenuti in custodia cautelare. Infine, la misura della detenzione domiciliare per le pene superiori a sei mesi è subordinata alla possibilità di ottenere il famoso braccialetto elettronico. Famoso perché è un argomento che torna spesso al centro del dibattito sulle misure penali e penitenziarie: il numero di braccialetti utilizzati negli ultimi anni è irrisorio e numerosi reclusi sono in attesa della loro disponibilità. Dunque, chi accederà realmente alla misura? Il bacino di potenziali destinatari si riduce sempre di più e così, senza considerare la necessità di un domicilio effettivo e l’assenza di rapporti disciplinari, potrebbero raggiungersi al massimo 3-4000 persone.
Dunque, tanta attesa per nulla e probabilmente quando queste persone potranno raggiungere la loro abitazione l’emergenza sarà bella che passata e migliaia saranno le vittime del sistema penitenziario. Già, non del coronavirus, ma dell’ingiustizia di un sistema che mette la propaganda politica davanti alla salute, millantando una sicurezza che non esiste e conquistando voti sulla pelle di esseri umani. Infatti, nonostante l’insufficienza e l’irrisorietà delle misure adottate, il leader della Lega Matteo Salvini ha parlato di un indulto mascherato e ha accusato Bonafede di mandare a passeggio i carcerati in un momento di così grave emergenza, subordinando all’abrogazione dei due articoli interessati il suo voto favorevole per la conversione in legge del decreto.
Si tratta della vergognosa demagogia di chi definisce il carcere luogo protetto e del vergognoso silenzio di un governo che non solo ha varato misure insufficienti che non saranno in grado di salvare la popolazione penitenziaria e chi quotidianamente negli istituti lavora, ma che dimostra di essere inconsapevole e inumano. Inconsapevole poiché le decisioni sono prese solo da chi non sa minimamente cosa sia il carcere e quali siano le sofferenze che vi si annidano, inumano perché si dimentica che si tratta di uomini che hanno il diritto di vivere come tali.