Berlino in un giorno di agosto. Fa caldo, ma non quanto dovrebbe per chi è abituato a un’estate italiana.
La visita alla Porta di Brandeburgo ha portato con sé un inaspettato, piacevole giro su una particolarissima “bici” a sei posti, con tanto di guida turistica al timone. L’atmosfera è leggera e, rilassati, ci si dirige verso la prossima area da visitare. Scesi dalla metro, si cammina per un po’ a piedi, seguendo cartelli stradali inequivocabili e arrivando a un angolo come tanti, superato il quale, ci si arresta per un secondo. In gergo editoriale, si direbbe che la sospensione di incredulità è per un attimo messa in dubbio.
Una piazza. No, meglio, una distesa, che si sviluppa a perdita d’occhio, di quelli che – tralasciando l’immediato, macabro e calzante paragone con delle tombe – sembrano essere a tutti gli effetti, grossi parallelepipedi scuri, alti tra il metro e il metro e mezzo, sporgenti, a distanze poco irregolari tra loro, dalla pavimentazione. Una targa posta sul terreno al limitare della struttura spiega cosa rappresentino.
La visita al sito è libera, tranne per il divieto di salire sui blocchi, prontamente infranto da alcuni ragazzi richiamati da una guardia altrettanto prontamente. Non c’è un punto di inizio stabilito né qualcuno che indichi un percorso. Di conseguenza, ognuno a modo suo si muove avanzando nella piazza, tra i blocchi scuri. Si potrebbe dire che essi siano inquietanti, macabri o evocativi e sarebbero tutte definizioni giuste e più che plausibili.
La verità però è che quei blocchi sono immobili. Freddi, anonimi, spenti. Non ci sono terribili immagini di bambini deportati, né di corpi ammassati. Non ci sono tombe o lapidi con nomi. Non c’è sangue.
Superando le prime file e addentrandosi verso il centro della piazza, anche il senso dell’equilibrio e quello della prospettiva inarcano per un secondo il sopracciglio. Il terreno e il pavimento che lo ricopre sono modellati in onde irregolari, dei piccoli saliscendi che abbassano gradualmente il fondo su cui si cammina. In meno di trenta passi – con una forte sensazione di essere caduti, più che di aver camminato – ci si ritrova circondati da monoliti alti oltre due metri che si ergono in file tanto ordinate quanto estese, in qualunque direzione si rivolga lo sguardo.
Una labirintica, gigantesca scacchiera grigia, sulla quale i pezzi sono tutti uguali, che attutisce i rumori esterni e sembra allontanare le immagini della vita del quartiere in cui è stata creata.
Si sta soli – fermi o vaganti – e si pensa. Non si leggono cartelli né notizie su display luminosi. Si riflette e un po’ si cerca anche di non capire, di non ricordare tutte le pagine studiate, i documentari guardati, i film commentati ma non ci si riesce. Il vuoto, l’anonimo, il sospeso e l’immobile li richiamano tutti assieme, assordanti nella mente e pressanti nel petto.
Stare al centro del memoriale è come essere messi davanti all’evidenza di una realtà che è stata e che ? come i blocchi di pietra utilizzati per rappresentarla ? è pesante, buia e porta con sé la chiara presenza della morte.
Di colpo, con la coda dell’occhio, si vede qualcuno attraversare una fila poco più avanti, si sentono delle parole, delle conversazioni in una lingua, poi in un’altra. Ci si riappropria della banale, eppure desiderata, consapevolezza di non essere soli. Poi si sentono le risa dei due bambini di una famiglia francese che giocano, rincorrendosi tra i pilastri, e qualcosa si sblocca. Ci si guarda nuovamente attorno e – almeno per un po’ – si modificano i parametri con i quali si valuta la realtà circostante. Si apprezza e si rispetta la vita in ogni sua manifestazione, ne si percepisce il valore, sacro.
Il Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, inaugurato nel 2005, è stato progettato dall’architetto Peter Eisenman e l’ingegnere Bruno Happold e consta complessivamente di 2711 stele in calcestruzzo grigio scuro. Creato in ricordo di tutte le vittime della furia nazista, il complesso comprende ? oltre alla piazza ? nella zona sud-est, un sotterraneo “Centro di documentazione degli ebrei morti nella Shoah” che custodisce le storie di alcune vittime.
Dei numerosi memoriali e musei che testimoniano l’abominio dell’Olocausto esistenti a Berlino, questo è uno dei più peculiari. Ideato con l’intento di disorientare il visitatore con il suo rigore e la sua monumentale staticità, riesce a elicitare un insieme di sensazioni forti, senza ausilio di supporti al di fuori degli elementi architettonici di cui si compone. Il pavimento che gradualmente fa sprofondare il visitatore lo isola dalla realtà circostante e il colore piatto che tinge le stele, assieme alla notevole estensione dei filari in cui esse sono organizzate, crea un effetto di disorientamento e oppressione.
La sensazione forse più sorprendente, però, è quella che si prova nello scorgere – e incrociare ? altre persone nel labirinto di pilastri poiché la struttura ordinata e fitta con cui questi ultimi si susseguono fa apparire e scomparire di continuo gli altri visitatori, i quali ? seguendo linee direttrici diverse ? entrano nel nostro campo visivo per un tempo brevissimo, ingannevole, che ce li mostra quasi fossero apparizioni spettrali, al contempo, segnalibri di morte e vita.
Allo stesso modo, la scelta di relegare i nomi, le immagini forti, le voci e le parole scritte ? necessarie tanto da essere più che giustamente considerate un corredo obbligatorio ? alla zona sotterranea e celata del memoriale appare come una sorta di esperimento: un grande atto di fiducia. Un’opportunità per l’umanità che visita il sito di dimostrarsi presente, cosciente, critica e diversa da quella parte di essa che ha reso necessario il memoriale stesso. Un’offerta preziosa ma spesso mal riconosciuta, come attesta ? in modo tanto ironico quanto amaro ? il recente, tremendo atto di indignazione di Shahak Shapira che, con il suo scioccante Yolocaust, denuncia in maniera brutale un atto banale: quello di scattarsi selfie ? e in generale, fotoricordo di ogni genere ? all’interno del memoriale. C’è chi pensa che l’attenzione e l’indignazione verso questo fenomeno siano esagerate e che esso possa addirittura definirsi un tentativo di esorcizzare l’orrore.
D’altro canto, in merito, una mente brillante e la sua penna hanno già puntualizzato, aprendo gli occhi al mondo intero, gli effetti che la parola “banale”? e tutto ciò a cui essa viene, banalmente, applicata ? possano provocare.
*Illustrazione in copertina di Maria Crisafulli©