Sono ancora negli occhi di tutti le immagini di appena un anno fa, quando Luigi Di Maio – allora leader politico del MoVimento 5 Stelle e Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico – si affacciava al balcone di Palazzo Chigi esultante: «Abbiamo abolito la povertà». I pentastellati, col benestare degli ex alleati di governo della Lega, avevano appena siglato l’accordo che dava il via alla misura manifesto dell’azione grillina: il Reddito di Cittadinanza.
Figlio del REI – manovra d’inclusione varata dal governo Renzi – e sua evoluzione, il Reddito di Cittadinanza mirava ad aiutare oltre 1 milione e 700mila famiglie italiane a percepire un introito mensile di 780 euro attraverso il quale poter affrontare le spese quotidiane, dall’affitto di casa all’acquisto di beni di prima necessità, come alimentari o farmaci. A dodici mesi da quel giorno, però, le cose non sono andate esattamente come l’attuale Ministro degli Esteri aveva previsto, e i pregi innegabili della misura si scontrano con le incongruenze e le iniquità di cui è pregna.
Il RdC – come detto – riserva, rispetto al REI, risorse ben più cospicue. Mentre per il primo, infatti, vi erano stanziati circa 2.6 miliardi di euro, per la nuova card di sussidio a nuclei familiari sotto l’indice di povertà sono stati messi a disposizione 5.6 miliardi nel 2019 e un picco di spesa di 7 miliardi per l’anno in corso. Un bel salto in avanti, non c’è da obiettare, non fosse che i numeri sbandierati da Di Maio e compagni non hanno ancora trovato riscontro con i dati offerti da Inps e ISTAT.
Il Reddito – tanto per cominciare – è arrivato, a oggi, a poco più di 1 milione di famiglie, per una media di 500 euro al mese. Non è poco, ma i criteri di attribuzione e, soprattutto, gli esigui controlli sulla reale condizione economica dei fruitori, aggiunti agli invece inefficaci benefici che avrebbe dovuto riscontrare in materia di creazione di nuovi posti di lavoro, gettano ombre su un progetto di innegabile levatura.
Anzitutto, non tutti coloro che accedono al Reddito sono poveri. Gli indigenti, in Italia, si stimano attorno quota 5 milioni e di quanti hanno beneficiato della manovra economica pentastellata non tutti appartengono alla sfortunata categoria. Così com’è formulato, infatti, il RdC favorisce i piccoli nuclei, formati da due, tre persone, lasciando fuori le famiglie più numerose, seppure in maggiore difficoltà economica delle precedenti. Il problema, però, non risiede in una falla di un sistema ancora sperimentale e, dunque, migliorabile, ma nell’obiettivo mirato del Ministro di Pomigliano d’Arco di poter comunicare alle tv e ai giornali che tanti sono i soggetti che riescono a godere dell’intera cifra promessa di 780 euro mensili.
Il criterio è lo stesso già adoperato dal PD tramite le massicce assunzioni sbandierate successivamente al varo del Jobs Act, contratti spesso legati a tirocini formativi che non garantivano la stabilità del lavoratore ma ingrassavano i dati da mostrare nel salotto di Vespa in seconda serata. Dunque, il Reddito dà troppo a chi – spesso – non ha bisogno e poco, o addirittura niente, a chi invece beneficerebbe per davvero di 500 euro in sostegno di una misera pensione a cui famiglie di quattro, cinque persone sono legate.
Molti lettori, probabilmente, non ricorderanno lo slogan che accompagnava la campagna pubblicitaria della manovra assistenzialista grillina, una rivoluzione nel mondo del lavoro. Inutile correre a cercare riscontro sul sito ufficiale del Ministero preposto. La frase in questione – che fa un po’ il pari con le dichiarazioni di Luigi Di Maio, nessuno resterà sul divano – è stata già rimossa da qualunque fonte ufficiale. Il motivo? Il Reddito di Cittadinanza non è servito al proprio scopo e l’occupazione è rimasta pressoché identica al periodo precedente alla sua messa in atto.
Le attivazioni al lavoro, nell’ultimo anno – relativamente a quanti percepivano il RdC – sono stimate in 40mila unità, di cui solo 1/5 a tempo indeterminato. Tuttavia, nessuna di queste è direttamente associabile alla mediazione dei tutor. Un dato miserabile se si considera che la misura era stata pensata non come fonte d’assistenza ma di avvicinamento al mondo del lavoro e che le persone attivabili a un’occupazione sono oltre 900mila. Dei nuovi centri per l’impiego, come pensati da Di Maio e compagni, non se ne vede neppure un progetto, e chiunque si rivolge a essi o ai famosi navigator – voluti per accompagnare il disoccupato nella sua ricerca – viene spesso dirottato ai servizi sociali già prerogativa del REI renziano.
Il punto, anche in questo caso, è di facile intuizione: manca la domanda, non vi sono abbastanza e adeguate offerte di lavoro. E con tale amara constatazione ha dovuto fare i conti anche il quartier generale grillino che è passato dall’annunciare porterà lavoro ad affermare serve a combattere la povertà.
La verità – lo avevamo già ipotizzato – è che il Paese necessita di seri investimenti di incentivazione al lavoro, non solamente misure assistenziali. Serve invogliare i datori a offrire impiego, detassando le nuove assunzioni, favorendo l’ingresso nel mondo occupazionale tramite sgravi fiscali, tutto ciò di cui la politica degli ultimi trent’anni ha spesso dimenticato all’indomani di roboanti campagne elettorali.
Urge apportarne dei correttivi, fare in modo che la manovra raggiunga davvero chi ne ha bisogno, controllare i furbetti del cambio di residenza e denunciarli, allargare i benefit anche a chi oggi ne è completamente sprovvisto come i senza fissa dimora. Occorre, inoltre, ritoccare la scala di attribuzione, togliendo vantaggio ai nuclei piccoli a discapito di famiglie numerose, come anche INPS e ISTAT hanno denunciato, riconoscendo lo squilibrio. Le politiche contro la povertà sono dunque inutili? No, e l’attuazione che ne fanno la maggior parte degli Stati europei lo dimostra, soprattutto nell’accompagnamento del soggetto che ne beneficia all’inserimento nel mondo del lavoro. Ciò che risulta inutile è il Reddito di Cittadinanza nella forma in cui è in funzione attualmente.