Giovanissimi di Alessio Forgione (NN Editore) è come un secchio d’acqua ghiacciata in pieno viso. Ufficialmente nella dozzina finalista, è stato candidato al Premio Strega 2020 da Lisa Ginzburg la quale, interrogata sulle motivazioni della sua scelta, lo ha descritto come un ritratto malinconico e intenso dell’età che precede la giovinezza e la piena definizione di se stessi, la cui potenza risiede nello sguardo e la voce di un protagonista che, occupatissimo a decifrare se stesso, trova spazio tuttavia per far parlare ciascuno. Con quella empatia autentica che è intimamente connaturata solo ai veri scrittori.
Il protagonista e narratore è Marocco, un ragazzo di quattordici anni che abita la realtà di Soccavo, nella periferia di Napoli. Marocco è il suo nomignolo, quello che gli affibbiano gli amici perché ha i capelli folti e ricci. A Napoli, quella dei soprannomi è una pratica molto diffusa: si parte spesso da una caratteristica fisica della persona e la si esagera o la si storpia fino al punto di fonderla con la sua identità. Il vero nome di Marocco viene usato solo in un caso: a pronunciarlo è il ragazzo stesso, che lo rivela al suo primo amore. Una volta, ho letto da qualche parte che conoscere il vero nome di qualcuno è un grande privilegio e una grande responsabilità, perché quella conoscenza garantisce un margine di potere sulla persona o la creatura che risponde a quel richiamo. In questo senso, il nome è come una formula magica che, se pronunciata, espone il proprietario alla sua stessa vulnerabilità, alla sua nudità. La scelta di Forgione di rendere i suoi personaggi conoscibili solo con i nomignoli o con il cognome assume, dunque, un grande valore simbolico.
I giovanissimi che vivono di strada, che su quelle strade sono stati testimoni della violenza degli adulti e dei coetanei, fanno proprio il codice secondo il quale tutto, di loro, deve essere impenetrabile. A partire dal nome. L’intero libro, in fondo, è attraversato da spifferi di misticismo che scivolano tra i palazzi squadrati della periferia e ammantano la realtà cruda e violenta dell’abbandono di un alone soprannaturale. Marocco divora articoli sui fantasmi e albi a fumetti di Dylan Dog. Al loro interno, forse, spera di trovare le risposte all’assenza ingombrante della madre nella sua vita. Di lei ricorda la sagoma affusolata delle gambe, i capelli biondi, gli occhiali da sole. La sogna spesso con le lenti scure perché non ricorda più la forma dei suoi occhi. E di Serena, il suo primo amore, Marocco avrà paura proprio di dimenticare la forma degli occhi.
Il protagonista si aggrappa al ricordo della madre navigando in una sorta di liquido amniotico onirico che lo scollega dalle incombenze del suo quotidiano. Lo dimostra il fatto che, pur apostrofandosi con epiteti volgari del dialetto napoletano con i compagni, il protagonista non riesca a riconoscere negli insulti parecchio diffusi quella cessa di tua madre/ quella zoccola di tua madre un improperio rivolto a una mamma ipotetica e universale e non in particolare alla sua.
Le altre donne presenti nel romanzo sono descritte in virtù del desiderio sessuale che fiorisce con la pubertà del giovane. Forse proprio perché della madre Marocco ricorda così bene le gambe, è ossessionato da queste ultime. Prova una grande attrazione anche per il seno, le zizze, la parte del corpo di una donna che più di tutte rappresenta il materno. Il rapporto con il padre è fatto di un affetto profondo, tenero, ma dolorosamente distante e inespresso. La loro convivenza sta in equilibrio sulle bugie, sui silenzi per quieto vivere, sulla paura di dover dire di più e mostrarsi fragili. Marocco va al liceo scientifico non per vocazione, ma perché ce lo manda il padre. Ben presto si ribella a questa timida imposizione, ma la sua non è una ribellione attiva, quanto piuttosto una scorciatoia palesatagli dal migliore amico, Lunno.
Lunno è scritto tutto attaccato, sta per l’unno: un appellativo che gli deriva dalla sua altezza (un vero e proprio tocco di classe l’assonanza di Lunno/lungo, l’aggettivo che Marocco adotta per descrivere l’amico, e di Marocco/Marco). Lunno è uno di quei ragazzi di strada che a poco più di quattordici anni si comportano come uomini fatti e finiti, con la praticità e il cinismo delle persone cui è stata sottratta l’infanzia. Lui e Marocco sono agli antipodi: se il tratto distintivo di Marocco è l’indagine di se stesso, lo scoprirsi in grado a poco a poco di colmare i propri vuoti, Lunno è il gigante silenzioso con il coltello, quello che ha compiuto la metamorfosi e si è fuso del tutto con la corazza impenetrabile che gli permette la sopravvivenza. Marocco si fa trascinare da Lunno in attività illecite, riconoscendo in lui una guida, grazie all’esempio del quale sprofondare nell’abisso dei senza speranza e smettere finalmente di soffrire.
In Giovanissimi emerge con spietatezza il racconto della periferia. Come ha dichiarato in diverse occasioni l’autore stesso, Alessio Forgione cerca di restituire all’immagine della periferia di Napoli un corpo che non sia quello perversamente esibito dalle pagine di cronaca, con la ricerca per il dettaglio macabro, per l’orrore del degrado. Non sottrae le realtà più indigeste alla pagina, ma le documenta così come avvengono nella Napoli vera: frammentazioni del quotidiano che attraversano e oltrepassano velocemente la vita di molti e spezzano per sempre quella di qualcun altro.
I ragazzi come Marocco sono talmente abituati alla frammentazione da non chiedersi mai perché e chiedersi solo quando. Quando capiterà a me, di trovarmi sotto un lenzuolo bianco, macchiato dal rosso del sangue? A questo proposito, è interessante porre l’accento sull’utilizzo che l’autore fa del colore, talmente importante da essere anche l’elemento predominante della copertina del libro. Rosso è, chiaramente, il sangue. Rosse sono anche le unghie smaltate e il rossetto delle donne per cui Marocco prova attrazione. Il rosso, in Giovanissimi di Forgione, rappresenta le pulsioni di Eros e Thanatos, il desiderio di vita e il desiderio di morte.
Il romanzo è diviso in cinque fasi: rifiuto, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione. Attraverso queste fasi si dipana il cammino difficile di Marco/Marocco e dei suoi amici, nati dimenticati. La scuola non gli interessa, né loro interessano alla scuola: l’unico scambio che avviene tra Marocco e la sua insegnante di latino è il disprezzo, prontamente ripagato con l’indifferenza. Solo il calcio rappresenta una plausibile via d’uscita dal richiamo della strada ma, a volte, neppure quello basta per non essere ricacciati ai margini. Alla periferia non si sfugge. Ti resta appiccicata addosso, come un nomignolo, un’etichetta che non viene più via. Lunno, Marocco, Gioello, Fusco e gli altri giovanissimi del romanzo se la portano cucita sul petto e se all’inizio la rifiutano, se provano rabbia, dolore o vergogna, poi cominciano a farsi accarezzare dal suo canto di sirena, a convincersi di non poter desiderare, di non poter pretendere un altro destino. Quanti giovanissimi, a Napoli, vengono travolti dalla stessa convinzione?
Sulla sua pagina Facebook, l’autore scriveva, qualche giorno fa: mi è stato chiesto del finale del mio romanzo, e cioè perché finisce così come finisce e poi d’immaginarne uno alternativo. Non sono riuscito a rispondere a entrambe le domande. Ho glissato dicendo che non credo al lieto fine, mai, a prescindere, tanto nei romanzi quanto nella vita vera. Oggi torno a Napoli e dai quotidiani esposti in stazione apprendo di questo quindicenne ammazzato ieri notte, in centro, da tre colpi, perché aveva puntato una pistola alla testa di un carabiniere in borghese, fuori servizio, nel tentativo di rapinarlo e non so spiegare bene il perché, ma questa cosa m’intristisce più del solito.
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