La chiamano la culla della civiltà occidentale, una terra di filosofi e di storia, di arte e cultura, di bellezza naturale ed eterna. È la Grecia, la patria di Platone e Aristotele, del mito, della democrazia. È l’eleganza di Atene che oggi si arrende alla violenza di Sparta.
L’Ellade di un tempo non esiste più da tanto, eppure anche nei suoi momenti più bui, soprattutto negli ultimi anni, la dignità greca non era mai parsa in discussione, nemmeno quando la Germania aveva fatto a gara ad accaparrarsela. Da qualche giorno, però, qualcosa è repentinamente cambiato, quella culla si è trasformata in capezzale, un non-luogo di prepotenza e brutalità che ne rende difficile la narrazione, insostenibile ma non nuova.
Le immagini che giungono dal confine greco-turco o dall’isola di Lesbo sono il più tragico e scontato epilogo – provvisorio, ovviamente – di un’escalation incontrastata e inarrestabile, di nove anni di una guerra nata come primavera araba e ben presto trasformatasi in un rigido inverno per l’umanità intera. Un esito prevedibile e più volte pronosticato, concretizzatosi a poche ore dalla conclusione di un febbraio atipico fermo alla pagina coronavirus. In fondo, lo stesso Recep Tayyip Erdoğan lo aveva annunciato nell’ottobre del 2019, minacciando l’indifferente Unione Europea. Oggi sta soltanto mantenendo la parola.
Il Presidente turco, più simile a un dittatore vecchio stampo, ha infatti aperto le frontiere per lasciar passare le centinaia di migliaia di migranti in fuga dal Medio Oriente – proprio come, in uno scontro con l’UE aveva dichiarato che avrebbe fatto se questa non avesse smesso di criticarlo. L’annuncio è giunto poco dopo una richiesta di intervento militare rifiutata dalla NATO a causa della morte di una trentina di soldati uccisi vicino Idlib, l’unica zona della Siria ancora sotto il controllo dei ribelli, oggi campo di battaglia dove la Turchia sta cercando di fermare l’avanzata del regime di Assad, quindi, della Russia, mantenendo, tra l’altro, un importante avamposto in chiave anti-curda.
Soltanto poche settimane fa, le Nazioni Unite parlavano di circa 900mila persone, tra cui moltissimi bambini, in marcia nel cuore del gelo siriano per sfuggire all’offensiva implacabile di Bashar al-Assad. Gente disperata e senza terra alla ricerca di un Paese innocente. Così, quando Erdoğan ha ufficializzato il libero lasciapassare, in tanti hanno raccolto i loro scarsi averi in sacchi di plastica neri, come quelli della spazzatura, incamminandosi il più velocemente possibile, clima permettendo. Giunti al confine, però, hanno trovato la polizia greca ad attenderli, a impedire loro di accedere alla civile Europa, quindi alla speranza di un futuro migliore.
Un numero imprecisato di migranti si trova, adesso, intrappolato su strade dove creare accampamenti di fortuna, spesso sulle montagne, nelle zone remote che uniscono la Turchia alla Grecia, in particolare nell’area compresa tra la città turca di Edirne e quella greca di Kastanies. I due Paesi condividono una porzione di territorio di circa 120 chilometri delimitato in gran parte dalle fredde acque del fiume Evros e da una recinzione artificiale che circoscrive il bosco oggi ospitante i profughi in condizioni igienico-sanitarie praticamente nulle. Le stesse che la stampa denunciava lo scorso febbraio raccontando la storia della bambina morta assiderata tra le braccia disperate del padre ad appena un anno e mezzo. Una dei tanti, troppi minori travolti da una guerra che non vuole finire.
Il Premier Kyriakos Mitsotakis – leader di un centrodestra tornato al governo troppo presto – ha più volte chiarito di non avere alcuna intenzione di consentire ai migranti di attraversare il Paese, adottando una linea dura sulla chiusura delle frontiere e in termini di soccorso che ha causato già due morti certi e forse, nelle stesse ore in cui scriviamo, altri decessi abilmente taciuti.
Da Atene sono subito partiti dei rinforzi ma, anche, indicazioni sulla gestione di quella che l’ONU definisce la più grande crisi umanitaria del nuovo millennio: non saranno accettate le richieste d’asilo di chi arriva in questi giorni, che sia via mare o via terra, la polizia pattuglierà i confini, verranno costruiti nuovi centri di detenzione e, con ogni probabilità, una barriera galleggiante sarà eretta al largo delle isole greche. Nel frattempo, si terrà un’esercitazione militare della Marina – la stessa che si è resa protagonista di violenze documentate da alcuni video diffusi sul web – durante la quale si potrà sparare alle imbarcazioni non autorizzate a navigare nelle zone comprese tra Agrielia Kratigos ed Eftalou, vale a dire la costa est di Lesbo dove, di solito, approdano i gommoni.
La Grecia, come l’Europa intera, teme un flusso migratorio simile a quello del 2015, quando circa 1 milione di richiedenti asilo affrontò la cosiddetta rotta balcanica, la tratta meno raccontata tra quelle attive in territorio ellenico, eppure ogni anno protagonista di migliaia di viaggi della speranza tra le acque dell’Evros, lì dove molti corpi vengono recuperati e altri persi per sempre. Il fiume – come segnalato dall’UNHCR – è attraversato per lo più da bambini e ragazzi, minori non accompagnati che, nonostante gli enormi rischi, tentano comunque la via.
Dal 2016 la tratta è quasi del tutto chiusa in seguito al discusso accordo – noto come dichiarazione congiunta – che ha visto l’UE promettere alla Turchia circa 6 miliardi di euro entro il triennio successivo affinché potesse gestire l’enorme numero di profughi, sorvegliare al meglio il confine con la Grecia e costruire strutture idonee all’accoglienza dei migranti. Un accordo che, stando agli esperti, avrebbe violato varie leggi internazionali in termini di asilo e che, tuttavia, non ha impedito a Erdoğan la vile decisione di aprire le frontiere per un lasso di tempo sconosciuto, minacciando l’Europa e sfruttando la disperazione di milioni di persone senza più nulla. Persone che, dopo le bombe, si vedono ora attaccate da bastoni, fucili e lacrimogeni. Della polizia, certo, ma anche dei gruppi di estrema destra che, in questo marasma, sguazzano e si ricompattano.
Chiamatisi a raccolta, infatti, i militanti di Alba Dorata e altri autoproclamatisi vigilantes stanno pattugliando le strade con il rischio che i non greci vengano aggrediti. Nella notte tra l’1 e il 2 marzo è stato incendiato un centro dell’UNHCR destinato agli afghani, così come attivisti e giornalisti sono stati picchiati e allontanati e le loro case assaltate. Sulle isole, in particolare a Lesbo, è stata realizzata una rete di checkpoint per controllare gli spostamenti dai campi che accolgono i rifugiati. A Chios, invece, è stato dato fuoco al deposito di Stay Human, la ONLUS che dall’aprile del 2018 offre servizi e beni di prima necessità ai profughi del campo di Vial che ospita circa 6mila persone, nonostante una capienza di 1500.
Proprio dalle isole il governo ha smesso di trasferire i migranti, causando sovraffollamenti e disagi, nonché tensioni esasperanti. Come quelle all’interno del Moria Camp, forse il più famoso centro di detenzione greco, dove a farla da padrone è l’homo homini lupus, un agghiacciante stato brado. Pensato per accogliere 3mila persone, allo stato attuale, il campo accoglie quasi 22mila profughi di cui 7mila bambini. Infanti che per la disperazione, per le ferite del fisico e dell’anima, per le violenze viste e subite – anche di natura sessuale – dichiarano di voler morire, finendo spesso per farsi del male. A gridarlo, da mesi, è Medici Senza Frontiere che riporta episodi di autolesionismo o di tentato suicidio da parte di circa un quarto dei bambini del campo e nelle modalità più atroci. Bambini che non conoscono l’infanzia.
Lesbo si sta tramutando, così, sempre più in una prigione a cielo aperto, lì dove nell’hotspot non c’è più posto e in tanti sono lasciati all’addiaccio. «Moria è un inferno – sostengono i migranti – ma se diciamo di essere più sicuri dentro puoi immaginarti quanta paura abbiamo fuori». Fuori, infatti, ci sono i residenti, stremati, per questo incazzati, che tuttavia, come nella più classica delle storie finiscono per fare la guerra ai poveri come loro, anzi ancora più poveri, senza in realtà ammettere di avere lo stesso nemico e fare così fronte comune. A Mandamados, intanto, nel nord dell’isola, si pensa alla costruzione di un centro chiuso, per coloro ai quali la richiesta di asilo viene rifiutata. Nient’altro che un nuovo lager. Nient’altro che l’ennesimo scempio firmato Europa, oggi UE, la comunità internazionale che ha pensato bene di non gestire la paura, di pagare per fermare, di stipulare accordi con un criminale, di armarlo con una bomba a orologeria che è la vita di milioni di disperati rinnegati persino da Dio.
È difficile dire l’uomo come morirà. Se sarà un virus, il corso naturale delle cose, il caso. L’umanità, invece, è già morta. Cambiano i confini, i nomi, la narrazione che se ne fa, ma non cambia ciò che siamo, ciò che vogliamo essere, ciò che non siamo mai stati. Non cambia l’indifferenza, cambia il vento che conviene soffiare. E così, mentre ce le sfreghiamo con il sapone, nell’assenza disperata di Amuchina, le nostre mani sono già sporche, irrimediabilmente colpevoli.