Non provo nessun dispiacere. Dovevano suicidarsi per aver cresciuto l’ennesimo pedone della criminalità. Il carabiniere ha fatto bene. #iostoconilcarabiniere. Meglio così, uno in meno. Non provo alcuna compassione per la sua morte. Non era altro che un cancro sociale.
Sono solo alcuni dei commenti che il popolo del web ha sentito di esprimere in seguito alla morte di Ugo, 15enne dei Quartieri Spagnoli, a Napoli, avvenuta nella notte tra sabato e domenica scorsa. Le prime ricostruzioni della vicenda parlano di una tentata rapina a mano armata – anche se l’arma si è rivelata poi un giocattolo – a un carabiniere in borghese che l’avrebbe colpito con due colpi di pistola, di cui uno al torace e l’altro alla nuca, uccidendolo. A seguire, alcuni familiari si sarebbero recati presso l’ospedale dove è deceduto il ragazzo e avrebbero sfasciato l’intero pronto soccorso, rimasto così inattivo per molte ore.
Ricostruire la dinamica dell’accaduto non spetta a noi, ma si spera che l’autopsia e i filmati di videosorveglianza di quella sera ci diano le risposte che in questo momento nessuno ha. Tuttavia, ci sono riflessioni che prescindono dall’episodio come fatto specifico e che riguardano l’intera comunità molto più a fondo. Tutti hanno sentito di dover dire la propria, di dover partecipare a un dibattito che oramai si svolge sui social nelle forme dei reality televisivi con estrema violenza e, ancor più grave, con infinita approssimazione, prima ancora che i fatti fossero chiari, così come avvenne nel 2014 per la morte di Davide Bifolco, quando le stesse persone che oggi si indignano accusarono il ragazzino di essere un camorrista e di meritarsi quella fine.
La disumanità non cambia e l’emblema ne è la frase La morte di un 15enne è sempre una tragedia, ma… Ma, un’avversativa che pesa sul capo di tutti noi come un macigno, come se ci fosse qualcosa che potesse alleviare il dolore per la morte di Ugo, come se la tragedia non fosse vera tragedia perché prima o poi sarebbe andata così.
Ecco, probabilmente è proprio per quest’ultima affermazione che dovrebbe compiersi il nostro esame di coscienza: sarebbe davvero andata così in ogni caso? Siamo certi che nessuno di noi sia responsabile se un membro della comunità muore in circostanze così drammatiche? Ugo era un ragazzino dei Quartieri Spagnoli e sicuramente viveva una realtà che un 15enne non dovrebbe mai sperimentare. La vita, però, è sacra e lo è qualunque essa sia. I quartieri popolari partenopei sono luoghi dimenticati dai più, di cui ci si ricorda solo in situazioni simili a questa, per puntare il dito e per definirli come la parte malata di Napoli, a volersi coprire gli occhi e pensare sia possibile espiantare dal proprio corpo il pezzo che non ci piace, restando sani.
Questa non è Napoli. Napoli è stanca. Napoli è stufa di queste sceneggiate oscene.
I toni violenti la fanno da padroni, mentre si ignora l’unico sforzo che il nostro essere uomini ci imporrebbe: andare oltre il fatto, guardare al di là delle dinamiche – tra l’altro non ancora chiare – e chiedersi perché ciò accade, soprattutto perché accade a Napoli, in realtà invisibili. Affermare che Ugo fosse un ultimo della società, così come lo sono i membri della sua famiglia, i suoi vicini di casa o coloro che abitano le zone dimenticate della città, non significa giustificare quanto compiuto, bensì riflettere. Si tratta di porte a cui la politica bussa esclusivamente quando si tratta di ricevere voti, magari facendo promesse vane o elargendo mazzette con l’illusione di poter comprare chi vive quei quartieri con più facilità di quelli che abitano la Napoli bene. Si tratta di luoghi in cui l’abbandono scolastico è alle stelle, regna il lavoro nero e lo sfruttamento è all’ordine del giorno.
E, così, la frattura che esiste realmente a Napoli si manifesta nei commenti successivi alla morte di Ugo e crea una cesura, tra coloro che stanno dalla parte dello Stato, perché è giusto difendersi come si può, e coloro che vengono additati di essere buonisti e privi di logica solo perché tentano di mantenere intatta la propria umanità. Si creano le tifoserie da stadio, si sventolano le bandiere e si grida giustizia, ci si schiera dalla parte dei buoni contro i cattivi e si sceglie come slogan la frase a effetto di Vittorio Feltri: anche a 15 anni un bandito deve sapere che la morte è possibile.
Ma quella giustizia di cui tanto ci riempiamo la bocca e che invochiamo a gran voce è davvero presente nelle nostre vite? Come si può trovarla là, dove giovani esistenze vengono stroncate, i bambini scappano quando sentono colpi di arma da fuoco, quelli a cui dovranno abituare le loro fragili quotidianità? Come si può dove le categorie si sovvertono e lo Stato è inesistente?
Tra un tifo e l’altro ci si dimentica la sensibilità, non ci si accorge che si trattava di un ragazzino a cui è già stata appioppata l’etichetta di bandito, rapinatore, cancro sociale, pedone della criminalità. Un ragazzino strappato alla vita, a una vita in cui è capitato. Chissà quante volte ne aveva sognata una diversa, di quelle che vedeva nei film o, molto più semplicemente, nella realtà di altri suoi coetanei.
Allora, quando dalle nostre tiepide case avremo ancora l’ardire di scagliare sentenze, di puntare il dito, di decidere dall’alto della nostra saggezza dove è il giusto e dove lo sbagliato, dovremo prima riflettere e farci delle domande. Nessuno è esente da colpa se in silenzio avalla questo sistema malato, se lascia scorrere la propria vita senza preoccuparsi di ciò che può fare per rendere la società migliore, se tutti non riusciamo a chiederci per cosa davvero vale la pena morire.