Quello della pena di morte è un tema che divide l’opinione pubblica mondiale. Strettamente legata alla sicurezza e all’eterno dibattito sulla relazione tra diritto e morale, la pena capitale rappresenta il fulcro di una discussione aperta da secoli. L’ultima notizia a tal proposito giunge dal Colorado, che ha appena votato per abolirla. Il Parlamento a maggioranza democratica ha approvato il provvedimento lo scorso 26 febbraio e diventerà definitivo nel corso delle prossime settimane. Lo stato americano sarà il ventiduesimo ad abolire la pena di morte e la legge entrerà in vigore a partire dal primo luglio di quest’anno. Nel corso del 2019, negli USA, sono state registrate 22 esecuzioni, ma alcuni stati, come Wyoming, Utah e Ohio, sono da anni animati da movimenti a favore della sua abrogazione.
Gli USA, però, non sono i soli a ricorrere ancora all’impiego di tale assurdo metodo punitivo. Fanno in realtà parte di una grande fetta di Paesi del mondo che ancora utilizza la pena di morte come deterrente per la criminalità. Le stime di Amnesty International riportano che sono 58 gli Stati che continuano ad applicarla nei loro ordinamenti. Dei 139 restanti, 97 l’hanno abolita per tutti i reati, 8 per i reati comuni e 35, pur mantenendola nell’ordinamento giuridico, non la applicano di fatto da oltre 10 anni. L’America e il Giappone, invece, sono le uniche nazioni industrializzate, libere e democratiche a farne ancora ricorso.
Nei Paesi in cui vige la libertà di parola e non esiste alcun pericolo nell’esprimere la propria opinione, abbondano le argomentazioni secondo cui la pena di morte sia del tutto legittima. Che venga definita un ottimo deterrente nei confronti dei crimini gravi, un modo per eliminare il rischio di recidiva o un efficace metodo per risolvere il problema dell’affollamento delle carceri, ogni tentativo di riabilitarne il nome appare, però, piuttosto sterile e anche pericoloso.
La pena di morte è, infatti, in totale contrapposizione con la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Essa viola il diritto alla vita ed è considerata dalle Nazioni Unite come una punizione disumana, assimilabile alla tortura, sia nell’atto stesso di portare l’altro al decesso sia per la sofferenza provocata dall’attesa dell’esecuzione – che a volte dura decenni. La pena di morte, in effetti, non è poi diversa dall’omicidio, con la differenza che è lo Stato a compierlo e allo stesso tempo a legittimarlo, e non sono rari i casi in cui è applicata in modo del tutto sproporzionato, con eccessi nei confronti delle classi più svantaggiate. Inoltre, comporta il rischio di punire irrimediabilmente un innocente e azzera le possibilità del detenuto di riabilitarsi.
Il fatto che anche alcuni Paesi liberi attuino ancora una pratica tanto antica quanto barbarica, inoltre, indica solo quanto possa essere difficile abolirla in Stati dalle inclinazioni meno liberali, ma non rappresenta il più grave aspetto del problema. In Paesi in cui il rispetto dei diritti umani è scarsamente garantito, infatti, l’esistenza di una pena radicale come quella capitale rappresenta il vero pericolo. Se in molte porzioni del mondo la condanna a morte è prevista solo per i reati più gravi, come l’omicidio e l’alto tradimento, in altre si applica anche a crimini violenti come rapina, stupro o quelli legati al traffico di droga. E in alcune è prevista addirittura per i reati di opinione.
Nelle nazioni in cui la fede religiosa o l’orientamento sessuale non sono soggetti al libero arbitrio, nei Paesi in cui omosessualità o apostasia sono definiti crimini, l’esistenza della pena di morte rappresenta la più grande minaccia alla libertà individuale. In zone come l’Arabia Saudita, l’abbandono dell’Islam o l’adulterio non solo sono considerati reati, ma sono delitti che prevedono l’impiccagione, la decapitazione o la lapidazione. E la comunità internazionale non è ancora in grado di tutelare i cittadini nei loro diritti fondamentali, primo tra tutti quello alla vita.
Il problema della pena di morte, dunque, si insinua nella delicata questione dell’intersezione tra diritto ed etica. Essa, infatti, è applicata anche come contrappeso morale per chi si è macchiato di omicidio: chiamata giustizia retributiva, rappresenta in realtà una versione, se possibile, peggiore della legge del taglione perché impone un gravissimo provvedimento di ordine giuridico come risarcimento morale. La norma morale, però, dovrebbe essere frutto della coscienza del singolo, qualcosa di non necessariamente condiviso dalla comunità e, certamente, non imposta dalle autorità.
Ma se queste prendono le parti della morale in Paesi in cui, per fortuna, vige una qualche forma di libertà, come si può pensare di salvaguardare i cittadini di quei luoghi del mondo in cui etica e diritto coincidono e le scelte personali diventano un rischio per la vita?