L’Attimo fuggente, uscito al cinema nel 1989, è diventato un manifesto dei millennial, la mia generazione confusa e spezzata, una generazione eternamente fuoricorso. Sospesi nell’incertezza del futuro, l’idea ci ossessiona e ci atterrisce. Proviamo a rifugiarci nel carpe diem di Keating, proviamo a rendere straordinaria la nostra vita, solo che ormai non sappiamo cosa voglia dire vivere una vita straordinaria: la confondiamo con l’evasione dalla realtà, con la mancanza di freni.
I nostri ricordi si riducono a una manciata di viaggi low cost di cui conserviamo fotografie che ci ritraggono con il sorriso a mezza bocca, gli occhiali da sole per nascondere il passaggio di una notte insonne e un superalcolico con ghiaccio tra le mani su una spiaggia affollatissima di altre persone intente a fotografarsi nella stessa posa, nel tentativo di convincere qualcuno – se non se stesse – di stare bene. Invece siamo svuotati, ci trasciniamo attraverso le tappe che ci avevano assicurato avrebbero portato al meglio per noi con scetticismo. Ma se durante l’adolescenza avevamo avuto qualche dubbio sul fatto che le autorità non hanno sempre ragione, qualche rigurgito di ribellione che gonfiava le vele del nostro coraggio, all’università ci laureiamo tutti in disillusione.
Tra le tante nozioni, impari che il compromesso è la chiave del successo e che il successo è sinonimo del merito. Merito è, più spesso di quanto ci piaccia ammettere, a sua volta un modo diverso per dire obbedienza, attenersi strettamente al programma. La sua nozione è strettamente legata al tempo che si passa all’università, alla produttività di uno studente: quanti esami riesci a dare in sessione. Mantenere alto il merito conviene: gli atenei con più fuoricorso pagano una percentuale più alta per il costo standard di formazione per iscritto. Gli studenti che, per i motivi più disparati, non riescono a conseguire il titolo di laurea entro i tempi previsti vengono, dunque, penalizzati con tasse più alte e con lo stigma sociale del parassita.
Anticamera del capitalismo feroce e decadente che vige all’esterno, l’università azzera all’apparenza le disparità tra studenti dietro lo scudo del merito, facendo sua la parabola del se vuoi, puoi. Se non riesci dipende esclusivamente da te: sei troppo stupido, troppo pigro, troppo debole. Il carico emotivo, a volte, è troppo grande. Nessuna delle persone che conosco è arrivata alla laurea con serenità: verso la fine, l’ansia da prestazione, la paura di non farcela, di saltare qualche scadenza improrogabile, il pensiero di essere considerato un fallito, ti attanagliano al punto da cancellare tutto il resto, anche la passione con la quale avevi iniziato. Quando esci fuoricorso, l’università ti definisce, diventate tutt’uno. La gente che ti conosce ti chiede prima se hai finito gli esami e, solo dopo, come stai. Fuoricorso è la macchia indelebile su un vestito immacolato. Tu curvi le spalle per impedire che si veda troppo, cerchi di camminare un po’ defilato, ma quella si allarga e ti inghiotte. Ti ritrovi completamente solo. Non riesci più a sopportare la competizione. Non riesci più a sopportare l’ampollosità degli ambienti, le formalità, la burocrazia, l’inettitudine e il disinteresse degli organi amministrativi o del corpo docente. Se a pagare gli studi provvede la tua famiglia, ti senti un peso: sei un investimento in perdita, non funzioni. Hai accettato il compromesso e ora non sai più chi sei.
Ogni volta che un mio coetaneo si toglie la vita all’università, penso all’Attimo fuggente di Peter Weir. Non so se avete presente quella scena dolorosamente lunga che precede il suicidio di Neil Perry. La telecamera indugia su ogni suo piccolo gesto, sul suo viso, la mascella serrata e gli occhi che ardono mentre adagia la corona di Puck sul davanzale aperto della finestra. La camera scivola sugli interni della casa addormentata. Neil seduto alla scrivania del padre con una pistola avvolta in un panno candido, poi lo sparo. Muto. Intuisci che è successo qualcosa dal brusco cambiamento di scena, dal padre di Neil che sobbalza nel letto. Glielo leggi in faccia il sospetto che suo figlio si sia suicidato. Si riaccendono le luci, tutto torna veloce. Il regista sceglie di non documentare lo sparo: il momento in cui Neil preme il grilletto contro di sé non è altro che il momento in cui un sogno si interrompe. Neil è spezzato dalle ambizioni del padre, che vorrebbe per lui solo il meglio – e, beninteso, il meglio per una persona è sempre quantificabile in denaro. Si sente mosso da un fuoco che non sapeva di avere, ma non è stato addestrato al coraggio: gli hanno insegnato a obbedire, a non mettere in dubbio l’autorità.
Quando il professor Keating sconvolge la sua vita, e quella degli altri studenti del liceo Welton, Neil si ri-conosce con curiosità. La conoscenza viene a caro prezzo: il giovane non è in grado di colmare la frattura tra quello che è e quello che ci si aspetta che lui sia. Non si suicida perché è debole, ma perché vuole disperatamente ricongiungersi al sogno. Mentre Neil sprofonda nel silenzio, a risvegliarsi sono tutti gli altri. La sua morte squarcia la maschera che portiamo sul palcoscenico del nostro vissuto, ci investe in pieno viso come un’ondata d’acqua gelida: nessun compromesso vale questa perdita. Il valore delle nostre vite non si calcola con la media ponderata. Nel monologo finale del Sogno di una notte di mezza estate Puck recita:
Se l’ombre nostre offeso v’hanno
Pensate, per rimediare al danno,
che qui vi abbia colto il sonno
durante la visione del racconto
e questa vana e sciocca trama
non sia nulla più di un sogno
Signori, non ci rimproverate,
Rimedieremo, se ci perdonate.
Ecco, se l’ombre nostre offendono qualcuno, non sta a noi rimediare. L’unica cosa che dobbiamo a noi stessi è preservare la nostra unica, complessa straordinarietà.