Come nell’incipit del lynchano Velluto blu (1986), Memorie di un assassino – opera seconda di Bong Joon-Ho risalente al 2003 e distribuito soltanto adesso sulla scia degli Oscar a Parasite – ci mostra nella scena iniziale un resto umano brulicante di formiche. Nel film dell’autore americano era un orecchio che si celava tra le foglie di un prato nella graziosa cittadina di Lumberton, punta di diamante della perbenissima provincia americana dalla facciata splendente che nascondeva orrori indicibili. Nell’opera del cineasta sudcoreano, invece, si tratta del cadavere di una ragazza, nascosto in un tubo di scolo sotto uno splendido campo di grano dove giocano i bambini. Anche qui abbiamo il Male che si nasconde insidioso negli interstizi di un paesaggio apparentemente bucolico dove un bambino prende in giro il poliziotto che cerca di allontanare tutti dal luogo del ritrovamento.
Il Male, però, si fa anche metafora di tutta una società poiché ci troviamo nella Corea del Sud del 1986 – stesso anno del capolavoro di Lynch! –, ancora sotto il regime militare di Chun Doo-hwan, per la precisione nella provincia del Gyeonggi in cui, nella cittadina di Hwaseong, accaddero davvero una serie di efferati omicidi tra il 1986 e il 1991. Nel frattempo, a Seul avvengono scontri tra gli studenti che protestano contro l’attuale governo e la polizia li reprime violentemente. Di lì a poco, giusto in tempo per le Olimpiadi del 1988, il regime cadrà.
A indagare sull’ineffabile serial killer c’è l’ottuso detective Park Du-man, interpretato dal massiccio Song Kang-ho – attore coreano molto popolare – che non si fa scrupoli a fabbricare prove per incastrare i sospetti e a farli malmenare dal violento collega Cho Yong-gu, interpretato da Kim Roe-ha, pur di ottenere confessioni, ovviamente non genuine, che consegnino alla giustizia il capro espiatorio di turno. Il primo a fare le spese di questi metodi d’indagine poco ortodossi sarà addirittura un povero ragazzo con un ritardo mentale, manifestamente innocente. L’intervento dell’investigatore esperto Seo Tae-yun, interpretato dall’intenso Kim Sang-kyung, proveniente da Seoul, scagionerà il giovane malcapitato e avvierà le indagini in maniera più seria.
La prima cosa che colpisce in Memories of murder è l’assaggio che il film ci dà di cosa vuol dire vivere in un Paese sotto un regime militare dove la polizia può fare pressoché tutto ciò che vuole: fermare i sospettati per giorni interi senza confermare l’arresto e senza prove per estorcere confessioni tramite la violenza, o malmenare persone nei locali pubblici senza conseguenze. Per fortuna, esiste una stampa che cerca di far luce sui soprusi e c’è una coscienza civile e nazionale che sta già esplodendo nella protesta che, di lì a poco, porterà al collasso il sistema. Di questi regimi di cui purtroppo l’attualità è ancora pregna sentiamo sempre parlare al tg, ma vedere nel concreto la vivida rappresentazione di cosa significhi viverli è ben altra cosa e il film di Bong Joon-Ho ce lo restituisce in tutta la sua drammatica quotidianità: sia negli atteggiamenti violenti dei poliziotti, consentiti come se nulla fosse, sia nelle scenografie della stazione di polizia fatiscente che negli interni squallidi in cui vivono gli stessi agenti e gli altri protagonisti.
Ecco, dunque, che l’orrore dei delitti compiuti dall’imprendibile assassino seriale che si diverte a stuprare e uccidere giovani donne, si fa specchio dell’orrore vissuto da un’intera società, in ostaggio di un potere opprimente e iniquo. E infatti i detective Park Du-man e Cho Yong-gu sono esatta espressione di tale potere, violento e ottuso nei metodi di indagine. A portare una ventata d’aria fresca sarà appunto l’investigatore Seo Tae-yun che, in uno scontro anche fisico di caratteri, si opporrà alle erratiche investigazioni degli altri due e cercherà di lavorare secondo criteri più seri e moderni. Non significa, però, che Seo Tae-yun acciufferà il colpevole a colpo sicuro, non siamo mica in un film americano! Non a caso, tale differenza con il grande schermo statunitense verrà rimarcata, meta-cinematograficamente, proprio dall’ottuso Park Du-man che, in un discorso al nuovo e odiato collega, ricorderà come l’FBI sia costretta a usare la testa, cioè a usare metodi d’indagine all’avanguardia, perché l’America è un territorio sterminato mentre la Corea è uno sputo e quindi le indagini si conducono a piedi, ovvero come una volta.
In realtà, con quest’opera, Bong Joon-Ho prende il meglio del cinema americano di genere crime, noir, thriller e lo fa suo, calandolo nella realtà sudcoreana che gli è propria e declinandolo in una maniera originale e dirompente. L’ossessività di Seo Tae-yun per la ricerca dell’omicida ricorda molto da vicino l’ossessione dei personaggi dei film di William Friedkin o di Michael Mann. La pervicacia con cui il Popeye Doyle di Gene Hackman nel capolavoro Il braccio violento della legge (1970) persegue il trafficante Charnier, la caparbietà del detective Richard Chance – interpretato da William Petersen nel travolgente Vivere e morire a Los Angeles (1985), entrambi di Friedkin – oppure, ancora, la tenacia ossessiva con cui il tenente Vincent Hannah/Al Pacino insegue il criminale De Niro nell’inarrivabile Heat (1995) di Michael Mann o la compenetrazione con l’assassino da parte dell’investigatore Will Graham – ancora William Petersen – nel seminale Manhunter (1986), sempre di Mann, è la stessa che definisce l’investigatore Seo Tae-yun nella sua spasmodica ricerca della verità. Con la differenza che Bong Joon-Ho mixa i toni e i registri, riuscendo sapientemente a passare dal grottesco al drammatico al thriller puro, come ci ha poi abituati con i film seguenti fino ad arrivare a Parasite.
La stessa scena iniziale è già straniante con il bambino che ripete beffardamente le parole del poliziotto mentre esamina il cadavere nel tubo di scolo, come pure grotteschi sono certi siparietti tra gli investigatori e i sergenti di turno all’interno della stazione della polizia. Così come quando Park deve allontanare addirittura un trattore dal luogo del secondo ritrovamento di un corpo esanime. Qui esplode tutta la tecnica del regista coreano con un magistrale piano sequenza che segue il detective Park che corre e salta su e giù da vari terrapieni nei suoi forsennati tentativi di sgomberare la scena del crimine. La camera, con movimenti veloci ed eleganti, lo segue negli spostamenti dandoci l’idea della confusione e della pochezza di mezzi di cui dispone la polizia per condurre le indagini. Addirittura, alcune analisi scientifiche fondamentali dovranno essere inviate in America perché in Corea non ci sono le attrezzature adeguate.
Come nei migliori film di detection made in USA anche qui, come dicevamo, abbiamo uno scontro di caratteri, ovvero tra l’ottuso Park e il sagace Seo. Ma tale scontro non si risolverà in una banale contrapposizione. Ognuno di loro imparerà qualcosa dall’altro e, pur tramite confronti violenti, i due cominceranno a stimarsi a vicenda finché Seo dovrà venire a patti con la propria coscienza e, in una bellissima scena, all’ombra di un tunnel che sembra inghiottire tutte le sue remore morali, sicuro di sé, vedrà crollare le sue certezze e dovrà confrontarsi con se stesso sotto un’incessante e simbolica pioggia.
L’utilizzo che Bong Joon-Ho fa della messa in scena e del mezzo filmico è maturo e impeccabile già in questa seconda opera e lo si vede anche da come gestisce la tensione in una scena in cui una giovane donna cammina di notte sola, sotto la pioggia, in una strada isolata di campagna e noi ci aspettiamo che da un momento all’altro cada vittima del serial killer. La ragazza, ignara, canta un brano per tenersi compagnia. Mentre avanza, però, si accorge che lo stesso motivetto viene fischiettato da qualcuno alle sue spalle che non viene visto né da lei né da noi spettatori. Lo stratagemma del fischiettio che aumenta a dismisura l’inquietudine riecheggia terribilmente il killer pedofilo interpretato da Peter Lorre nel mitico M – il mostro di Dusseldorf (1931) di Fritz Lang.
La scena prosegue con la donna che utilizza l’ombrello per schermarsi dalla realtà e da ciò che sta per scatenarsi su di lei: il modo in cui Joon-Ho inquadra l’ombrello, quasi fuori fuoco, sullo sfondo del paesaggio notturno e della fabbrica che si intravede in lontananza rende l’oggetto, e la donna che si cela dietro di esso, quasi astratto, in una sorta di bolla di sospensione che verrà spezzata subito dopo dall’arrivo dell’assassino. Una scena di pura tensione dunque, gestita con le armi visive di un astrattismo inatteso e pur coerente. L’autore ci priva poi del momento dell’omicidio lasciando che i delitti avvengano sempre fuori campo e aumentando così ancor di più l’agitazione nello spettatore. Anche l’inseguimento dei tre poliziotti a piedi nei confronti di un sospettato è gestito magistralmente, con utilizzo di steadycam a precedere e a seguire i personaggi nei budelli tortuosi della piccola città di Hwaseong, che ricorda le scene di inseguimento in cui è maestro il già citato Friedkin.
L’avvicinamento spiraliforme a una verità ineffabile che sembra sfuggire a ogni nuovo livello dell’indagine e che diventa sempre più evanescente e inafferrabile a ogni sospettato fermato, prefigura in modo sorprendente e premonitorio lo stesso percorso di avvitamento a cui andranno incontro gli investigatori e i giornalisti protagonisti di quel capolavoro che era Zodiac, film del 2007 di David Fincher, che rese conto della storica e vana ricerca della polizia nella San Francisco degli anni Settanta nel tentativo di acciuffare il famoso serial killer Zodiac. Anche lì, l’indagine diventava pretesto per affondare lo sguardo del cineasta nelle contraddizioni di un’epoca e, a questo punto, ci chiediamo in effetti se l’autore di Seven (1995) e Fight club (1999) non abbia guardato all’opera di Bong Joon-Ho, prima di filmare la sua odissea investigativa.
In conclusione, possiamo dire che la visione ritardata di questo Memories of murder ci conferma la statura di un autore che, già alla seconda opera, aveva uno stile e una poetica ben definiti, espressi in maniera compiuta e terribilmente efficace, riconoscibili poi nei suoi lavori seguenti. Come nella migliore tradizione dei maestri del cinema di genere americano, Bong Joon-Ho si muove appunto tra il crime di Memorie di un assassino (2003) e Madre (2009), il monster-movie di The Host (2006), la fantascienza distopica di Snowpiercer (2013), fino ad arrivare allo spietato e satirico affresco morale di Parasite (2019), riuscendo sempre a piegare i generi a una visione forte e a uno sguardo ben identificabile, operando con le sue opere una dissezione spietata della società tramite un sapiente, consapevole e disinvolto utilizzo del linguaggio cinematografico che sprizza amore sconfinato per la settima arte da tutti i pori. Onore al maestro Bong Joon Ho.