La legge per la promozione della lettura approvata da poco fa discutere e divide lettori, editori e librai. Il provvedimento modifica la precedente Legge Levi del 2011 che fissava lo sconto massimo del prezzo di copertina di un testo – stabilito liberamente dall’editore – al 15%. Eventuali altre promozioni potevano essere applicate in autonomia dagli editori e dai librai, i quali potevano scegliere di aderire oppure no alle iniziative promozionali delle case editrici. Durante le promozioni, lo sconto applicabile saliva al 25%. Biblioteche e associazioni senza scopo di lucro potevano, invece, acquistare i libri scontati del 20%. La norma prevedeva alcune eccezioni: i libri antichi, i libri usati, i libri fuori catalogo.
Una delle criticità della Legge Levi, prontamente riscontrata da quanti sostengono l’attuale normativa per la promozione della lettura, era quella di favorire, anche se in maniera indiretta, i grandi gruppi editoriali che in Italia sono in grado di controllare l’intera filiera del libro: produzione, distribuzione e vendita. I grandi gruppi, infatti, erano avvantaggiati nel proporre offerte al pubblico rispetto agli editori indipendenti o alle iniziative prese dai singoli punti vendita. Possiamo capire meglio andando a guardare che cosa paghiamo quando compriamo un libro: il 50-60% del prezzo di copertina serve a coprire i costi di distribuzione. Se il soggetto che distribuisce la merce è anche quello che la acquista – come nel caso di Amazon, ad esempio –, il margine di guadagno sul singolo prodotto sarà più ampio e questo permetterà di vendere il libro al consumatore finale a un prezzo più accessibile, che gli editori indipendenti e le piccole librerie non possono applicare se non vogliono rischiare di fallire.
Nel 2012 – un anno dopo l’approvazione della Legge Levi – la casa editrice indipendente minimum fax avviava il progetto editoriale SUR proprio per sperimentare un’alternativa al giogo della grande distribuzione. In un’intervista rilasciata a Loredana Lipperini su la Repubblica, Marco Cassini spiegava l’iniziativa con queste parole: «Quella di SUR è una filiera corta. Andiamo direttamente alle librerie senza passare per il distributore. Volevamo che editore e libraio, che sono principalmente due intellettuali, tornassero a parlare di libri, perché negli ultimi anni la discussione sembrava essersi spostata solo su sconti, campagne, prezzi di copertina. A SUR hanno aderito, finora 96 librerie indipendenti – oggi, nel 2020, quelle librerie sono 200 – che potranno ricavare così fino al 51% del prezzo di copertina, circa il doppio dei loro normali ricavi». Minimum fax aveva sostenuto con fervore l’iniziativa della Legge Levi di limitare gli sconti al 15% proprio per evitare prezzi di copertina dopati in modo da illudere il lettore di star risparmiando sull’acquisto.
La legge per la promozione della lettura attuale agisce, invece, in maniera ancora più invasiva sulla possibilità di scontare i prodotti dell’industria editoriale: si passa, così, dal 15 e 25% al 5%. Unica eccezione i testi scolastici, scontabili al 15%. Come interpretare, dunque, questa ulteriore limitazione? Le opinioni si dividono, molto spesso, anche a causa del punto di vista adottato: c’è chi sostiene che, ancora una volta, questa manovra si sia resa necessaria per evitare il gioco di un aumento sleale dei prezzi; c’è chi sostiene che, appianando la differenza di trattamento di editori e librai, si restituisca finalmente un po’ di pace ai commercianti, schiacciati dai margini di profitto bassissimi e dalla concorrenza con i grandi gruppi di editori e distributori (online e offline). Un punto di vista ancora diverso vedrebbe, nella riduzione della soglia degli sconti, un modo per educare il lettore a riconoscere il valore del libro in tutte le sue componenti.
Non si può, però, fare a meno di porsi una domanda diversa: se l’abbassamento del tetto degli sconti non è bastato a salvare le librerie e regolamentare in maniera più equa il mercato nel 2011, perché dovrebbe riuscirci l’introduzione ancora più stringente del limite al 5%? Per provare ad arrestare il fenomeno della chiusura delle librerie indipendenti in Italia, la legge per la promozione della lettura annuncia che a decorrere dal 2020, i librai potranno godere di nuove agevolazioni sotto forma di detrazioni fiscali cospicue. Nonostante ciò, la Piccoli Nardelli – dal nome della parlamentare PD – intacca il business della distribuzione in maniera marginale: imponendo uno sconto fisso sia agli editori che ai librai, riesce a parificarne solo superficialmente la condizione.
Se si fosse effettivamente voluto intervenire sulla filiera del libro, si sarebbero potute avanzare proposte che puntassero ad agevolare e favorire la cooperazione di editori e librai indipendenti sparsi sul territorio italiano, dando luogo, nel lungo termine, a un mercato più equilibrato e a esempi editoriali virtuosi come quello di SUR. I provvedimenti immaginati dalla legge, invece, ricadendo in gran parte unicamente sulle tasche e sulla responsabilità del consumatore finale, rischiano di rivelarsi l’ennesima manovra di accanimento terapeutico sull’industria culturale perennemente in crisi. Senza scalfire neppure i colossi dell’e-commerce, additati erroneamente come unici colpevoli della chiusura delle librerie.
In qualità di lettrice, spingo ancora oltre la riflessione: un libro è in parte un potente strumento di cultura, in parte semplicemente merce. Una legge il cui perno sia la regolamentazione dei prezzi, sceglie di occuparsi principalmente del mercato. Se, però, adesso prendiamo in considerazione l’oggetto e lo rivestiamo nuovamente del suo connotato culturale, siamo obbligati a chiederci in quale modo questa misura, che regolamenta la sfera economica, impatti sull’accesso alla conoscenza, sull’accesso alla cultura. Secondo l’ISTAT, la percentuale di lettori in Italia è rimasta drammaticamente bassa e invariata per anni: un abbondante 40% dichiara di leggere un solo libro l’anno. Il dato più sconfortante è quello territoriale: sempre secondo l’ISTAT, al Nord Italia legge una persona su due, al Sud una su quattro. Il 49.9% contro il 26.7. Dunque, una legge che voglia dirsi di promozione della lettura non può trascurare questi dati.
Il ruolo centrale delle scuole nella formazione dei lettori del domani viene ribadito più e più volte dalla norma. All’istruzione viene affidata la delicata mansione di appassionare, incuriosire, placare la sete di conoscenza dei giovani. Per questo motivo, si riconosce una posizione di spicco proprio alle biblioteche scolastiche. Le Regioni dovranno occuparsi di designare, tramite bandi appositi, le scuole-polo che si occuperanno di formare il personale bibliotecario e promuovere la cooperazione tra le scuole e le biblioteche pubbliche presenti sul territorio. Anche a questo scopo, viene istituito un fondo di 4 milioni 350mila euro annui. Un milione di euro è destinato solo alla formazione di nuovi bibliotecari da far confluire negli istituti scolastici.
Tralasciando il commento delle cifre dedicate al progetto – che se si ha un’idea anche solamente vaga della quantità di biblioteche e scuole sparse lungo lo Stivale potrebbero risultare insufficienti –, l’aspetto veramente centrale è un altro: ogni Regione, ogni Comune, aderisce al piano nazionale per la promozione della lettura sulla base del proprio bilancio. Questo vuol dire che le Regioni e i Comuni le cui scuole e biblioteche godono di risorse inferiori faticheranno a uniformarsi al piano di promozione della lettura. Al Sud, dove già le persone non leggono, si parte, ancora una volta, svantaggiati.
Potrebbe servire a invertire parzialmente la rotta l’iniziativa della Capitale italiana del Libro, un titolo della validità di un anno assegnato a una città italiana sulla base dei progetti culturali presentati. La cifra che verrà assegnata alla vincitrice è di 500mila euro annui a partire dal 2020. I criteri di giudizio ai quali saranno sottoposti i progetti, invece, restano da definirsi. Risulta, dunque, prematuro esprimersi riguardo il ruolo che giocherà la Capitale italiana del Libro nella lotta alla disparità culturale nel Paese. Altra misura di contrasto alla povertà educativa è l’introduzione di una Carta per la Cultura valida per un anno del valore nominale di 100 euro che verrà assegnata a nuclei familiari economicamente svantaggiati. La legge non chiarisce, però, né quali siano i parametri di assegnazione né cosa si possa effettivamente acquistare con il sussidio e se questo aiuto statale possa essere usato in concomitanza con il contributo all’acquisto dei libri scolastici, ad esempio.
La questione dell’accesso alla cultura è tuttora inscindibile dalla realtà del territorio e pare allontanarsi ancora di più da quella popolare. Non si può fare a meno di esercitare legittimamente il dubbio che le misure adottate, più che includere e promuovere, scoraggino e taglino fuori una fetta di lettori potenziali. Viene certamente da chiedersi come si possa classificare una legge che spera nella ripresa culturale del Paese a partire dallo sbarramento degli sconti sui libri e dalla nomina di una Capitale italiana del Libro, nell’era degli insegnanti precari, delle scuole che suddividono gli alunni per ceto, della ricerca sottopagata, di un’università sempre più elitaria, del Nord e del Sud sempre più distanti.