Martedì 28 gennaio è stata presentata nella sede della FNSI La Via Libera, il progetto editoriale di Libera e del Gruppo Abele che vede come Direttore editoriale Don Luigi Ciotti e come Direttrice responsabile Elena Ciccarello. È stata l’occasione per spiegare che proporre un giornale, oggi, è una scommessa ambiziosa che mira a far conoscere ai lettori determinate questioni – prima fra tutte quella mafiosa – in maniera più specifica e puntuale, dando spazio ai ragazzi e a un giornalismo che non si fermi alla notizia in quanto tale. Ne abbiamo parlato con Elena Ciccarello che ci ha spiegato a cosa punta il progetto e come intende rapportarsi ai giovani.
L’editoria è in crisi. Perché avete deciso di mettere su un giornale?
«È stata una scommessa fare nascere La Via Libera in questo periodo, scommessa che nasce dall’idea che il giornalismo serve ancora. Contrariamente a quanto ci hanno raccontato in questi anni, è necessaria un’informazione di approfondimento, un’informazione che vada in fondo alle questioni, dunque un’informazione che studi i fenomeni».
Avete dichiarato che saranno preminenti tematiche come quella ambientale e quella relativa alla criminalità organizzata: su cos’altro volete concentrarvi e, in generale, non credete che di questi argomenti si parli troppo poco o, comunque, in modo superficiale?
«Quanto ai temi, certamente approfondiremo le tematiche legate alle mafie, alla corruzione e all’ambiente. Il punto è che quello della criminalità organizzata viene spesso visto come un male tra gli altri, mentre vorremmo riscoprire – tornando alle origini – com’è la mafia. Per quanto concerne il modo in cui ne parlano i giornali, certamente l’avvento dei social ha accelerato la divulgazione di alcune informazioni e inevitabilmente i media si sono dovuti adeguare a tali tempistiche. Ma allo stesso tempo emerge la necessità di un giornalismo che non scada il giorno dopo: noi cercheremo di collocarci lì, proponendo storie e analisi, ma per farlo ci vuole tempo».
Secondo Lei perché non se ne parla abbastanza? Mi riferisco anche alle ultime dichiarazioni del boss Graviano sui rapporti con Berlusconi a cui la stampa ha dato poco risalto…
«Il fatto non è che non si parli di mafia, bensì che se ne parli non sempre con i termini giusti e in maniera opportuna. La difficoltà sta nel fatto di andare oltre le indagini della magistratura, cosa complicata che ha bisogno di tempo e che alcuni giornali fanno. Il giornalismo investigativo richiede risorse che non tutta la carta stampata possiede perché è un lavoro che necessita di preparazione, competenza e studio. Ad esempio, non si è parlato molto delle dichiarazioni di Graviano perché non tutti i giornalisti sono in grado di capire e interpretare le sue parole e i suoi messaggi, dunque torniamo al punto d’origine, alla necessità di un giornalismo che abbia alla base l’approfondimento».
Come vi inserirete nel dibattito politico?
«La nostra idea è quella di raccontare la realtà attraverso l’interpretazione della realtà stessa. Abbiamo le nostre opinioni sulle specifiche questioni che affronteremo man mano però non ci occuperemo della politica di palazzo: a noi interessano molto di più le politiche, cioè le decisioni che vengono prese. Analizzeremo la mala politica sulla quale non faremo sconti a nessuno tra coloro che ci troveremo di fronte. Senza dimenticare che ogni argomento trattabile è declinabile in termini politici, non ci nasconderemo dietro a un dito».
Non credete che sarebbe il momento di far riavvicinare i giovani alla carta stampata? Come pensate di farlo?
«Stiamo cercando di fare due cose contemporaneamente: investire sui social e sul web perché siamo consapevoli che i più giovani si informano sui canali comunicativi tecnologici, provando in ogni caso a farli riaffezionare alla carta stampata; proprio per questo abbiamo inserito nel nostro giornale una rubrica dedicata alla generazione Z, ossia agli under 25, affinché siano la voce che racconta la loro generazione».
Abbiamo citato la crisi dell’editoria. Possiamo dire che gran parte della responsabilità è dei tanti giornalisti che a volte usano la carta stampata anche come strumento di propaganda del politico o dell’imprenditore di turno?
«Che ci sia un cattivo giornalismo è vero ed è sempre esistito, tuttavia non dimentichiamo la trasformazione dei mezzi di comunicazione che sono esterni rispetto ai media tradizionali ma anche la concezione del giornalista che viene visto come una figura superata e superabile. Invece, esistono ancora firme affidabili che hanno la capacità di raccontare in maniera opportuna e con la giusta competenza ciò che vedono e sono queste che contrastano la cattiva informazione. Anche il fatto che si sia deciso di non aiutare l’editoria – lasciando il giornalismo sul mercato – non è stata una scelta saggia: il giornalismo va incentivato e sostenuto, anche in modo diverso rispetto al passato però va fatto allo scopo di dare dignità a questo mestiere».
Non crede che in questo modo si rischi di far dipendere i giornali da chi li finanzia?
«Io direi che è il contrario, nel senso che va spronato chi decide di investire nel giornalismo, seppur con mezzi diversi rispetto al passato e in maniera ponderata e sostenibile – tenendo conto anche dell’organizzazione interna dei giornali. Tutto ciò al fine di garantire un giornalismo di qualità».
Avete intenzione di dare spazio anche alle storie di quei giornalisti che scrivono pezzi sottopagati e che a volte rischiano la propria vita pur di raccontare cosa gira intorno a loro?
«Sicuramente coltiviamo un’idea etica del giornalismo non solo per quello che è il giornalismo in sé ma anche per rispetto nei confronti del giornalista: sono stata precaria per anni e so cosa vuol dire, a maggior ragione ritengo fondamentale che si debbano mettere i cronisti nelle condizioni – anche economiche – di lavorare con serenità. Esiste poi il tema della violenza rivolta ai giornalisti e su questo ci vorrebbero degli strumenti che limitino i danni che si possono creare all’attività giornalistica ed è da tempo che viene chiesto di inserirli nell’ordinamento. Penso, ad esempio, al risarcimento dei danni a favore dei giornalisti che subiscono le cosiddette querele temerarie. Non si è ancora riusciti a ottenere questa misura che pone un problema non tanto per la preoccupazione che suscitano quanto per la perdita di tempo che provocano quando, purtroppo, talora tali querele instaurano meccanismi di auto-censura».